LLHT ha il grande piacere di ospitare per la prima volta un’inedita intervista a Simone Perotti, l’indiscusso pioniere del downshifting in Italia che ha recentemente pubblicato per Frassinelli “Un uomo temporaneo” (da me recensito sul quotidiano online il Cambiamento).
Grazie a un’idea di Marìca Spagnesi, ormai storica (e stoica!) collaboratrice di LLHT, abbiamo realizzato per Simone queste domande su Gregorio, il carismatico ed enigmatico protagonista del suo ultimo romanzo. Buona lettura.
Marìca e Andrea


Simone Perotti
Ciao Simone. Mi risulta che tu, parlando di Gregorio, abbia detto “Non so quante volte sarei voluto essere lui” o “Non sono riuscito ad essere come lui”. Che cosa ha fatto Gregorio che non sei riuscito a fare tu?
Beh, a cambiare il gioco. Forse sono stato troppo garbato, forse ero ancora troppo educato, forse avevo bisogno di un segnale favorevole quando ho iniziato. Chissà. Certo è che io ho lavorato dentro le regole, cercando semmai di cambiarle. Errore: le regole di un gioco sono sempre giuste, vanno bene per quel meccanismo, e vanno rispettate, semmai limate, ma non molto altro si può fare. Se uno vuole fare altro deve cambiare il gioco, cioè non limitarsi a migliorare, tinteggiare, riordinare, sistematizzare, funzionalizzare, ma spingersi a sovvertire ciò che ritiene capovolto, per metterlo dritto, cambiando sfondi e primi piani, insomma: cambiando tutto quel che si può, se questo sente di dover fare. Io non sono stato bravo come Gregorio, anche se poi sia io sia lui siamo dovuti andare via.
Gregorio sembra non riuscire a tagliare il cordone ombelicale che lo lega alla sua azienda. Le rimane affezionato e vicino, non prende nemmeno in considerazione l’idea di potersene staccare. E’ facilissimo identificarsi con questo atteggiamento, perché è (purtroppo) la condizione di moltissime persone. Che cosa rende così difficile quel distacco, in base alla tua esperienza? Come mai ne abbiamo così tanta paura?
Non concordo con quel che dici a commento. Non vedo gente che sente la responsabilità di quello che fa come se fosse suo. Non vedo lavoratori che amano l’azienda e la mansione e il prodotto come se fossero i propri. Ed è anche per questo che il lavoro è disumanizzante e straniato e assurdo. Gregorio non odia, sente la responsabilità di ricevere uno sitpendio e dover dunque dare in cambio qualità. Questo atteggiamento è solo superficialmente un atteggiamento aziendalista. E’ un comportamento da uomo sobrio, pacifico, non turbato da rivendicazioni inutili e assurde, che sta dentro, sa di starci, sente che lo pagano, si pone il problema di dare in cambio una prestazione. Questo passaggio è importantissimo, perché dipinge un uomo leale, che non freme per nessuna cosa, solo a a cuore quel che fa. Cioè il contrario esatto della gran parte dei lavoratori, che mugugnano, bisticciano, rivendicano, e poi magari si scopre che la loro prestazione è mediocre, misera, che non hanno alcun titolo di protestare, semmai dovrebbero essere criticati loro, e molto, per quel poco che sono e che fanno. Nel management ne ho visti a eserciti, fatti così. E qui viene il punto: solo chi fa ed è responsabile e crede davvero in quel che fa, ed è appassionato, e produce un vantaggio tangibile, può rivoluzionare. Solo chi è leale può criticare. Solo chi si impegna e dunque fa sua la cosa che fa, può dire “questa cosa è mia”. E’ una questione di adesione, passione, partecipazione vera, coinvolgimento. Chi non c’è del tutto, chi non si adopera, chi rubacchia, critica e sputa nel piatto dove mangia, non farà mai nessuna rivoluzione, non migliorerà mai quel che stigmatizza. Perché ne è parte. Questo passaggio è fondamentale, perché riguarda la qualità dell’uomo del futuro, quello a cui dobbiamo tendere. Troppi “ladruncoli, che rubano solo e non danno niente” (Sebastiano Vassalli).
Krishnamurti dice che il vero cambiamento, la vera rivoluzione avviene abbandonando il noto per l’ignoto: sostituire al noto qualcosa che comunque già conosciamo non è un vero cambiamento. E’ inutile voler migliorare qualcosa di sbagliato: bisognerebbe cambiarla, quella cosa, invece di migliorarla. In questo senso, Gregorio può essere considerato un vero rivoluzionario?
Assolutamente sì. Si spinge su territori incogniti, cercando di fare il meglio per sé, l’azienda, le persone. Non ha un progetto, non segue un percorso di potere, è anarchico, si fa guidare dall’intuizione e dalla passione. Cerca di cambiare tutto. E in gran parte ci riesce. La citazione di Krishnamurti non credo sia casuale, visto che lui passeggia con un suo libro sotto braccio e lo cita in un capitolo.
Ho l’impressione che, mentre Gregorio è impegnato a migliorare le condizioni di vita e di lavoro dei dipendenti (procurando così anche un vantaggio all’azienda), tu ti sia molto schierato dalla sua parte. E’ un’impressione legittima?
Io farò sempre il tifo in chi tenta, in chi si spende, in chi opera sotto la propria responsabilità. Farò sempre il tifo per chi invece di soccombere fa ricorso alla sua statura morale per sovvertire le sorti di uno scontro che lo vede spacciato secondo categorie vecchie e vincitore secondo categorie nuove. Farò sempre il tifo in chi viene guidato dalla passione, in chi innova, spera, sogna, e poi però agisce, senza proclami ex ante, ma con grande orgoglio di ciò che ha effettivamente realizzato. Se a un certo punto la popolazione aziendale non si fosse fermata, non avesse fatto prevalere la ripetizione, la stanchezza, cioé se fosse stata più ambiziosa, credo che l’azienda sarebbe passata di mano, sarebbe cambiata così tanto da veder cambiare anche la stessa proprietà. Il disegno di Gregorio era molto ambizioso… Forse per questo fallisce. Nessuno è più ambizioso, davvero, a questo mondo. E i risultati si vedono. La mediocrità impera.
Se volessimo semplificare, la storia di questo libro è la storia di un uomo o quella di un contesto (aziendale, nella fattispecie)? Dell’azione di Gregorio, cioè, sarebbe secondo te più interessante indagare le cause interiori oppure le conseguenze sociali?
A me interessa sempre l’uomo, l’individuo, cioè la cellula prima, la particella elementare di ogni conseguenza sociale o aggregativa. Mi interessa che un uomo condannato a morte sociale e lavorativa non solo non sia morto, ma sia stato in grado di dare una lezione morale e perfino organizzativa ed economica a chi, mediocre, lo aveva giudicato inadatto. Ecco il senso ultimo del romanzo: ogni individuo può essere più forte, migliore, più in grado di rivoluzionare tutto di qualunque azienda, manager, politico che in teoria dovrebbe e potrebbe giudicarlo o stabilire le sue sorti. Se le cose stanno così, però, il potere è tutto nelle mani dell’individuo. Dunque se qualcosa non accade, l’individuo è a sé che deve chiedere conto, non alla sorte, non al potere, non a Dio, non all’economia, non alla società. Tutte queste cose, insieme, le ha dentro.
Eccellente.
E se per un attimo cambiassimo le domande, sostituendo alla parola “azienda” l’espressione “situazione politica”, tutte le risposte sarebbero ancora esatte.
Il che dà i brividi…