Pochi giorni dopo essermi licenziato, quando LLHT era un progetto semisconosciuto e io mi ero appena dis-occupato, un amico mi disse: Con la tua preparazione e la tua motivazione diventerai certamente una persona di successo. Senza esitare, e anche un po’ stupito per la sua inattesa profezia, replicai: Vedi, io mi sento GIA’ una persona di successo. Perché sto finalmente cominciando a fare ciò che ritengo giusto per me e per la collettività.
Non avevo più uno stipendio. Nessuna polizza sanitaria. Né copertura assicurativa. Ero definitivamente fuori dal sistema previdenziale, stavo urlando allo Stato che il suo welfare non era più il mio. Ripudiando l’elemosina che qualcuno chiama ancora previdenza, mi preparavo a costruirmi una pensione fatta non di soldi ma di relazioni. Il banco era già saltato da un pezzo (e quello che accadrà…!). Ero uscito dal perverso circuito del lavoro-produco-consumo e mi predisponevo a consumare pochissimo, a produrre niente (se non un “output” massimamente etereo e indefinibile chiamato consapevolezza), a trasformare il mio labor in opus.
Tempo dopo, uno dei pionieri del downshifting in Italia ha detto queste parole: la felicità è avvicinarsi all’idea che si ha di sé. Mi colpì, quella definizione. Sia perché io – avendone troppo rispetto – mi sono dato la regola di non parlare mai di felicità. Ma soprattutto perché quella definizione coincideva essenzialmente con la risposta che mesi prima avevo dato istintivamente al mio amico.
Ero felice? Sono felice? Lo sarò, in futuro? Mi spiace, ma manterrò fede al mio impegno di non parlare mai di felicità. Anche perché… ehi, pssst… avvicinatevi, che vi rivelo un segreto: uno dei trucchi per sfiorare la felicità è proprio smettere di preoccuparsi di quella degli altri. 😉
Anche se il mio amico, in effetti, non aveva parlato di felicità. Aveva parlato di successo. Che cos’è il successo, dunque? Vediamo…
Il successo è innanzitutto un… participio passato. Ma andiamo con ordine…
Un giorno dell’anno scorso mi trovavo in un bar di Modena, la mia città. Ho salutato l’amico che mi aveva appena offerto un caffè, e sono uscito. Un paio d’ore dopo ho ricevuto un suo sms: Ricordi quel tale appoggiato al bancone del bar? Dopo che te ne sei andato, mi ha chiesto se eri proprio tu, Andrea Strozzi. Non nego che la cosa mi abbia fatto un certo effetto. L’ho persino raccontata e qualche occhio ha addirittura brillato. Nel mio cuore c’era invece un velo di apprensione.
Recentemente, un mio lettore mi ha scritto su Facebook una cosa bellissima, che difficilmente dimenticherò:
Chi mi conosce meglio di altri sa che la mia vita, da qualche mese, è ulteriormente cambiata. Un fuoriprogramma di cui si sarebbe volentieri fatto a meno. Sono cose, tutte queste, che sono… successe. Perché è esattamente questo, il successo: accogliere le cose che succedono, propiziando quelle favorevoli e attutendo gli effetti di quelle sfavorevoli. C’è però un piccolo dettaglio: sia per propiziare le prime che per accogliere le seconde, occorre… tempo.
Riflettete su questo, allora: quante cose fate succedere? Quante esperienze diverse mettete in fila? Quante vi arricchiscono? Quante vi tolgono qualcosa? Quando è stata l’ultima volta che avete fatto qualcosa per la prima volta?
Solitamente, i criteri che la società adotta per stabilire chi ce l’ha fatta e chi no (uso volutamente un’espressione che detesto) sono invece molto diversi. Derivano da altro. Altre pulsioni. Altri metodi. Eterodiretti e pruriginosi. Tutti più o meno direttamente collegati al denaro o alle sue contropartite materiali.
Per quel che mi riguarda, credo che il successo significhi molto più semplicemente far succedere le cose che ci fanno stare bene. Farne succedere il più possibile. Per farlo, come detto, occorre tempo. Per avere tempo, occorre scrollarci di dosso le vischiose costrizioni di questo presente impazzito.
E allora possiamo chiedercelo, a questo punto. Ce l’ha fatta, Bobby Sands? Ce l’ha fatta, H. D. Thoreau? Ce l’ha fatta, il signor Nessuno che da anni si sbatte per portare aiuti in un villaggio sconosciuto del Burkina Faso? In base a quale criterio, dunque, ce l’abbiamo fatta? Ultimamente, durante i miei incontri invito i presenti a fare un esercizio: c’è una specie di fiore, con quattro petali. Dentro, le domande di una vita. Tra i petali si nascondono le attitudini con cui rispondiamo a queste domande. Il… come. Al loro interno si nasconde un ulteriore mistero… un quadratino rosso per molti di noi irraggiungibile, capace di rivelare tantissime informazioni preziose sul Senso che saremo riusciti a dare alla nostra permanenza, qui ed ora.
Il criterio è allora uno soltanto: il tempo che avremo saputo impiegare per far succedere le cose che ci fanno stare bene. Ecco, credo che sia solo questo, il successo.