Alcuni piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma nessuno o pochi si domandano: se avessi anch’io fatto il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà e il mio consiglio, sarebbe successo ciò che è successo?
Antonio Gramsci
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Alla fine di ogni mio intervento pubblico c’è una domanda che – pur con toni o sfumature diverse a seconda dei casi – non manca mai. E’ una specie di appuntamento fisso. Essa suona più o meno così: d’accordo, tu sei uscito dal sistema e predichi il cambiamento su base principalmente soggettiva, ma se questo cambiamento non avverrà su larga scala, magari tramite una forza sociale organizzata, non pensi che le tue restino solo parole?
Questo tipo di argomentazione nasce purtroppo dalla palude morale in cui è sprofondata l’Italia nel corso del Dopoguerra e attecchisce nel cono d’ombra del senso di civiltà di moltissime persone. Questo argomento, in altre parole, è un inconfessabile ma solidissimo alibi per nascondere la propria indolenza. O, il ché è addirittura peggio, per derubricare a niente la propria responsabilità diretta.
Il cambiamento è sempre e soltanto prima di tutto un atto individuale. Se non altro, perché la cellula primordiale di ogni consorzio umano è sempre e soltanto l’individuo. Ribaltando per una volta a nostro favore, mutatis mutandis, l’illusorio dogma neoliberista della ricaduta favorevole (“il perseguimento dell’interesse individuale produce ricadute benefiche sull’intera collettività“), possiamo benissimo affermare che l’approccio sociocentrico di ogni individuo si traduce nel miglioramento del tessuto sociale (che si rifletterà a sua volta sul benessere soggettivo).
Nel momento stesso in cui il cambiamento viene invece delegato (tramite i meccanismi dello stesso ordinamento democratico, per esempio), non si può più parlare di cambiamento, ma solo di un astuto disimpegno. Proprio a questo proposito, mi destano compassione e tenerezza tutti quegli intellettuali, filosofi e opinionisti vari che costruiscono intere carriere sulla implacabile condanna di questo sistema, sfruttando però – guarda caso – proprio i dorati pulpiti che quello stesso sistema mette a loro disposizione (e magari ricevendone più o meno lauti compensi): una “dissidenza” insomma che, almeno alle mie assuefatte narici, puzza molto di calcolo, opportunismo e convenienza mediatica. Guarda caso, il 99% delle persone che questo sistema lo criticano solo a parole, non offre mai – dico mai – argomenti e proposte concretamente praticabili sul cosa fare dopo. Non una nuova visione dell’orizzonte. Non un sogno realmente generativo. Non un’idea. Non un diverso modello culturale a cui ispirarsi. Non un singolo progetto. Niente di niente. Solo una capillare e autoportante decostruzione dell’esistente (magari rievocando cliché del passato), esclusivamente funzionale al più disarmante e inapplicabile vuoto pneumatico. Un vuoto reso certamente polarizzante da belle parole e seducenti invettive. Ma totalmente inutile dal punto di vista pratico.
A nulla serve ricordare l’invito gandhiano ad essere in prima persona il cambiamento che si vorrebbe vedere nel mondo. A nulla serve il sollecito di Martin Luther King a sentirsi orgogliosi di essere disadattati. A nulla serve il tentativo di persuadere che, applicando queste esortazioni alla lettera, il mondo miracolosamente cambia davvero, se non altro perché lo si percepisce cambiato. E lo si percepisce cambiato perché, una volta usciti dalle sue subdole seduzioni consumistiche, le maglie che ci separano dal contesto esterno magicamente si allargano. E, tramite queste maglie allargate, l’energia che passa “da” e “verso” il sistema circostante ne cambia strutturalmente i connotati, facendocelo percepire come realmente modificato. E se una cosa la percepiamo come cambiata, per noi essa è effettivamente cambiata. Ma l’efficacia di questa spiegazione – lo so bene, in quanto molti anni fa io stesso ero animato dal medesimo scetticismo – è preclusa a quei “prigionieri” capaci soltanto di appendere nuovi gerani alle sbarre delle loro celle, magari rinfacciando pure a chi ne è uscito la bellezza della propria condizione di schiavitù. Prigioni di comfort, le chiamo io.
Il cambiamento richiede coraggio, ma parlandone con tutti quelli che hanno intrapreso questo difficile percorso – statene certi – si riceverà un’identica risposta: ci voleva molto più coraggio a restare dov’ero prima.
In questi due anni sono stato invitato e ho conosciuto comunità di cohouser, ecovillaggi, facilitatori, progettisti energetici, geologi, downshifter, coworker, orticoltori, biologi, permacultori, homeschoolers, formatori, naturopati, microcreditori e finanziatori etici, amministratori, imprenditori sociali e tantissime altre professionalità che, attivamente impegnate nella realizzazione di stili di vita autenticamente sostenibili, stanno realizzando – ignorati dai circuiti mediatici mainstream – l’ossatura della società neovernacolare che ci attende. Non sarà un caso se, proprio mentre scrivo, mi segnalano che BNG, banca olandese a partecipazione pubblica, ha appena emesso un bond di un miliardo a otto anni, destinato a finanziare le associazioni locali di social-housing maggiormente sostenibili: un esempio di come l’iniziativa locale sia in grado di attirare risorse o, come diceva Gandhi, di cambiare il mondo. E questo, grazie a persone che sono partite da se stesse. Rischiando qualcosa del loro. Intercettando le onde giuste e consorziandosi. Condividendo sogni e saperi a livello microcomunitario. Generando quel tessuto sociale inclusivo, partecipato e prepolitico che, solo, può sconfiggere questa farsa di Crisi.