Lo scorso Aprile, come qualcuno di voi forse ricorderà, ho pubblicato un articolo in cui illustravo una sintesi del rivoluzionario studio sulle disuguaglianze economiche di Branko Milanovic, figura di spicco a livello internazionale nella diagnosi delle iniquità distributive, nonché lead-economist della Banca Mondiale (banca che – ricordo – non è spudoratamente orientata al profitto, ma ha tra i suoi obiettivi la lotta contro la povertà tramite il finanziamento dei Paesi in difficoltà). In quell’occasione, riuscii persino in qualche modo a segnalare il mio post al diretto interessato, il quale – con mio grande orgoglio – è da allora diventato un seguace di LLHT:
Lo studio in questione è Global Income Inequality by the Numbers: in History and Now, da me tradotto e sintetizzato (in parole semplici) nel post Convergenza o divergenza? Breve storia dell’iniquità.
Tuttavia, c’era qualcosa che non mi tornava, in quel paper… Qualcosa che strideva con alcune evidenze che avevo in testa e che sono ormai sotto gli occhi di tutti. Le mie perplessità erano legate al vero legame tra Convergenza ed Equità, due termini che – il primo da molti economisti, il secondo da molti sociologi – vengono spesso fraintesi e (maliziosamente?) confusi.
Il concetto di “convergenza”, più famigliare agli ambienti economici, attiene al processo di progressiva riduzione dei gap di sviluppo tra le diverse nazioni del mondo. Esso andava pesantemente di moda negli anni Ottanta e Novanta, quando risultava perfettamente funzionale ad anticipare le “magnifiche sorti e progressive” che avrebbe presto consentito l’imminente globalizzazione. Era abbastanza facile da intuire: abbattendo le frontiere e garantendo la libera circolazione dei capitali, si sarebbero agevolati sia i flussi di fattori produttivi (lavoro), che gli investimenti internazionali (capitale), consentendo al modello mercantile neoliberista di diffondersi senza freni su scala planetaria. Effettivamente, andò proprio così. Sul piano prettamente econometrico, le disuguaglianze tra i sentieri di sviluppo tra le economie occidentali e quelle (allora) meno sviluppate andarono via via assottigliandosi, autorizzando i policy-maker di allora a scambiarsi sorrisi compiaciuti e, soprattutto, a sfregarsi le mani. Si pensi non solo alla Cina, ma più in generale agli altri BRICS (Brasile, Russia, India, Sudafrica) e, in particolar modo, a molti Stati del Terzo Mondo. In poche parole, era vero: la globalizzazione stava riducendo i gap di sviluppo (misurati dal PIL) allora esistenti tra le diverse aree del pianeta!
Nello studio citato, Branko Milanovic, il cui osservatorio (diversamente dal mio) è appunto su scala mondiale, introduce tre diversi criteri per la valutazione delle disuguaglianze economiche tra gli Stati, caratterizzati da un livello di sofisticatezza crescente. Non riprenderò qui l’esame dei tre criteri, per il quale rimando al mio post. L’ultimo criterio, che si basa su una misura analitica delle disuguaglianze sociali (che considera cioè le singole persone, anziché gli Stati), viene naturalmente eletto come il più attendibile. In estrema sintesi, l’economista umanitario dimostra che, prendendo in considerazione non i livelli di benessere medi delle nazioni (per le quali, effettivamente, c’è stata la tanto agognata convergenza), ma considerando anche come è concentrata la ricchezza all’interno di ogni singola nazione, si è assistito a un aumento dell’iniquità distributiva.
Come dire, sintetizzo io, che il prezzo della convergenza è stato pagato in termini di equità!
Quello che cerco sempre di fare (e che, a onor del vero, mi dicono tutti riuscirmi piuttosto bene) è spiegare con parole semplici argomenti e concetti a volte anche molto complessi. Vi segnalo quindi una vignetta, che ho fatto girare recentemente su Twitter in quanto secondo me efficacissima, che esprime alla perfezione i concetti di questo post, e che vi inviterei quindi a divulgare il più possibile:
Quello che credo io, a questo punto, è che posizioni politiche, economiche e culturali ispirate al lato sinistro della vignetta siano oggigiorno non più soltanto anacronistiche, fastidiose e deprecabili, ma che possano a tutti gli effetti configurarsi anche come… antisociali. Perché, inutile che stia qui a dirvelo io, in ballo non c’è più soltanto la possibilità di… assistere a una partita di baseball!
Qualche giorno fa, lo stesso Branko Milanovic ha ritwittato un’immagine diffusa da Philippe Waechter (Chief Economist Natixis Asset Management) che integra perfettamente le risultanze del suo studio:
Si può notare abbastanza chiaramente, nel grafico di sinistra, come la disuguaglianza fra nazioni sia aumentata ininterrottamente – per circa un secolo e mezzo – fino alla fine degli anni Settanta. Dopodiché, come dicevamo sopra e “grazie” alla spinta della globalizzazione, questa ha cominciato a flettere. A quale prezzo, però? Ce lo dice il grafico di destra, in cui viene indicato, per cinque economie sviluppate, la quota di ricchezza complessiva detenuta dal più ricco 1% della popolazione. Guarda caso, questa quota comincia ad aumentare proprio alla fine degli anni Settanta! Come a dire che a beneficiare in primis del riassetto geopolitico mondiale, finalizzato alla convergenza fra intere economie, sono stati invece pochi, selezionatissimi individui: appunto l’uno per cento della popolazione, che ha così potuto concentrare nelle proprie mani una fetta progressivamente più consistente del reddito nazionale disponibile. Ovviamente, a discapito del restante 99%.
Prendendo in prestito dall’ultimo libro di Zygmunt Bauman (“Danni collaterali”) una citazione di Glenn Firebaugh del 2008,
[…] è in atto l’inversione di una tendenza da tempo nota: stiamo passando da una crescente disuguaglianza tra nazioni accompagnata a livelli di disuguaglianza stabili o in calo all’interno delle nazioni, a una diminuzione della disuguaglianza tra le nazioni e un aumento della disuguaglianza al loro interno.
[…] L’immediata conseguenza di quel “libero fluttuare” del capitale, ormai emancipato dal controllo della politica, sarà molto probabilmente la riduzione di quel differenziale, che ha messo in moto l’attuale tendenza verso un “livellamento” degli standard di vita tra Paesi diversi. I Paesi che hanno immesso capitali nello “spazio dei flussi” si trovano a loro volta in una situazione che li rende oggetto di incertezze generate dalla finanza globale, e in cui la loro capacità di reagire è minata dalla nuova mancanza di Potere – che, in assenza di una regolamentazione globale, li obbliga a ripercorrere un po’ per volta, e a ritroso, la strada che aveva portato a quella tutela che un tempo (prima del divorzio tra Potere e Politica della privatizzazione dell’incertezza) promettevano (e spesso garantivano) ai propri poveri.
La frase riportata in epigrafe di Beck è da interpretarsi al contrario. La società, secondo Beck, non è una composizione di soluzioni biografiche individuali, sebbene questa sia una persuasione talmente diffusa da diventare senso comune. È questa persuasione che, in realtà, ha portato al collasso del vero impegno politico. Ognuno, ovviamente, è libero di pensare ciò che vuole – o che crede di volere. Comunque alla correttezza delle citazioni bisogna fare attenzione.
Effettivamente, questo è un blog che da sempre si contraddistingue per superficialità dei contenuti e pressapochismo delle fonti: un errore così grave, quindi, ci può benissimo stare. (…)
Ti consiglierei comunque di indirizzare la stessa osservazione anche a quel tal Zygmunt Bauman che cito nel post e che – sempre nello stesso libro – riprende la medesima citazione di Beck, connotandola in questo modo:
(Grassetto mio.) Ciao.
Insisto, anche se so di diventere sgradevole e antipatico. Il problema è proprio sul quel “devono trovare soluzioni biografiche”, nel senso che sono stati convinti a questo dovere. Sempre lo stesso Bauman, infatti, scrive: “Non meraviglia (…) la facilità con cui si rifiuta l’impegno senza troppi tormenti morali e si trovano aergomenti per legittimare la negazione della colpa. Poiché veniamo esortati a cercare (come ha affermato in modo memorabile Urlich Beck) soluzioni biografiche a contraddizioni sistemiche, a contare soltanto sulle nostre risorse possedute e gestite individualmente, e ci viene detto e mostrato ogni giorno che tutti seguono o cercano con fatica di seguire questa esortazione, ci abiutiamo all’idea che il nostro itinerario individuale di vita sia la sola preoccupazione realistica e l’unico terreno sul quale concentrare un’azione efficace, che non sia una perdita di tempo. Difficilmente troviamo un motivo e una speranza per cercare di riformare le condizioni più ampe nelle quali sono plasmate le nostre biografie – e le biografie di tutto il resto degli uomini – e si ricercano disperatamente soluzioni biografiche”.Z.Baumann “Il secolo degli spettatori”, Bologna, EDB 2015 p.32-33 Quel “devono trovare soluzioni” non è un’esortazione, ma, sia nel pensiero di Beck che di Baumann, è un obbligo a cui ci hanno convinto. Proprio questa è la crisi della politica, che si evidenzia proprio in quel “cercare disperatamente soluzioni biografiche”. Ma non basta. Anzi, può diventare lo strumento migliore per autoingannarsi.
L’ha ribloggato su ACLI Ascoli Satriano "Don Tonino Bello".
Bauman è pesantuccio, pessimista, ecc. ma da quel pochissimo che ho letto di lui e per essere un ottantenne ha uno sguardo limpido come pochi
Mi prenderò un po’ per leggerlo ma sono certo che sarà un altro passo avanti nel mutamento di questo blog da semplice spazio web a luogo di riflessione e reazione innovativa. Avanti così! Si ricorderanno a lungo di una tale cura dei contenuti, alla faccia di quelli che “Internet è estemporaneo”…
Mi hai beccato, Marco: sono sempre stato un… fondamentalista della qualità! (Almeno, nelle intenzioni…) 😉
E’ bello constatare quanta gente lo stia apprezzando. Grazie!