“C’è un’estasi che segna il culmine della vita, oltre il quale la vita non può andare. E il paradosso dell’esistenza è che tale estasi giunge quando si è più vivi e consiste nella più completa dimenticanza di essere vivi.” (J. London)
Io passo in mezzo ai miei contemporanei come in mezzo a frammenti dell’avvenire. Di quell’avvenire che io contemplo. (F. Nietzsche)
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La retorica del va tutto bene non ha mai funzionato, con me.
Un pessimismo imperiosamente costruttivo. Uno slancio visionario sulla fionda tesa del miglioramento. Non posso, non voglio e non riesco mai a rassegnarmi alla prima opzione. Ne voglio dieci, cento e mille, prima di rivendicare il diritto all’inquietudine che prelude alla scelta. E’ sempre accaduto, da queste parti.
E’ accaduto con l’università, con la casa, con il lavoro. Con gli affetti. Accadrà sempre e comunque. Vedo ovunque i miei contemporanei. Vedo vite assertive e asservite, brulicanti di rassicurante subordinazione. Ogni anno, mese, settimana e giorno… vedo gli stessi, ripetitivi rituali: l’incessante replicazione del quotidiano è per moltissime persone il vero, inconfessabile welfare-state. Assolversi dalla responsabilità dell’ingegno, ciò che ci distingue da altre organizzazioni biologiche. Atrofizzare la nostra natura ancestrale, immolandola sull’altare del flusso. Assolutizzare la nostra indolenza, esonerandosi da ogni prospettiva di inebriante protagonismo. Indignarsi per un reddito di equità, ignorando però le falle strutturali di un mercato del lavoro che non è mai stato così isterico. Prodursi in stucchevoli sofismi su una legge elettorale, mentre attempati oligarchi ne sollecitano platealmente una revisione “alla luce del mutato contesto politico”. Non reagire. Non agire. Essere morti, illudendosi vivi. C’è vita, prima della morte?
Gli alti e i bassi. Inspirare ed espirare. Espansione e contrazione. La vita è circolare, come l’universo. Normale la pausa, dopo la celebrazione. Normale adesso prendersi un po’ di tempo per studiare le prossime mosse. Normale, sì. Ma non scontato. Solo dopo essersi abituati agli schiaffi in piena faccia e svincolati dalla soffocante dittatura del tempo, ritorna infatti possibile delimitare senza costrizioni i propri spazi di recupero. Attività che può richiedere giorni, settimane, mesi. Misurare il tempo e il valore delle cose con metriche sorprendenti, diverse da quelle suggerite dai sussidiari. Il mio bisogno non è più il vostro. Non mi servono le decine di guru ben pettinati che sbucano da ogni parte, speculando sul disorientamento collettivo. Ridicoli e pericolosi, come i loro assi nella manica. Guru per le teste. Guru per i cuori. Guru per le pance. E allora no, grazie. I miei istinti serpeggiano per diverse contrade dello spirito, ormai. Non mi serve un foglio di propaganda istituzionale per affermare ciò in cui credo. La mia rivoluzione è impercettibilmente titanica. E s’insinua su scorciatoie inesplorate ma incontaminate. Il mio grido di libertà si sottrae al potere precostituito per farsi beffe dell’Ordinamento e del Diritto, sofisticate e seducenti invenzioni della nostra pericolante (sub)umanità.
Assai presto gli schemi e le platee si trasformeranno: preparatevi ad avere paura. Diversamente da come tentano di farvi credere, l’affermazione potrà esprimersi nella riconoscibilità digitale. La vittoria e la sconfitta – categorie esse stesse destinate a subire una profonda trasformazione – saranno questa volta faticosamente silenziose.
L’affermazione si nutrirà piuttosto dell’accorgimento di sé. Accorgersi. Del proprio Ruolo, oscurato dalle più febbrili convenzioni. Della propria Presenza, disarcionata dall’effimera concitazione del… presente. Della propria Contentezza, capace di eludere ed escludere le sirene della co-scienza, subdola introiezione di un sapere (scienza) condiviso (co), quindi sfuocato. Del proprio Senso, al cospetto dello sguardo solenne e incuriosito di un tempo nuovo ma tremendamente possibilitante. Perché inesorabilmente, e finalmente, vivibile.

“I bari” – Caravaggio, 1594 – Particolare