Trovati un lavoro, caro mio. E trovatelo presto. Assicurati un posto sicuro. Poi occupalo e tientelo stretto. In questo mondo, non so se l’hai capito, non si vive di poesia. I soldi servono per sopravvivere. E a chi dice “Voglio fare un lavoro che mi piace”, io auguro ogni bene. Ma si tratta di persone fortunate, che hanno già le spalle coperte.
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Una volta c’era il secolo Novecento. É finito già da un po’.
Il Novecento era fatto di rivoluzioni scientifiche, genocidi, incrementi demografici, guerre civili, allunaggi, urbanesimi, dichiarazioni d’indipendenza, rivoluzioni sociali, conflitti mondiali, inquinamenti ambientali.
Il Novecento ha avuto tantissime conseguenze sul nostro presente. Alcune, purtroppo, bussano alla nostra porta ogni giorno.
Siccome ho appena finito di leggere Il lavoro non è un posto (Lorenzo Cavalieri, ed. Vallardi), vi racconto cosa mi è rimasto in testa.
UN POSTO
Nel secolo scorso le persone occupavano un posto. Era il loro posto. Era “un qualcosa che aveva a che fare con il loro destino”, cioè dipendeva “dal paese in cui si nasceva, dalla casa dove si abitava, dalla moglie o dal marito che si sposava”.
Quel posto dava sicurezza e protezione. Garantiva di “pianificare matrimoni, figli, acquisti di case, auto, vacanze”. I ricavi non erano imprevedibili montagne russe, ma avevano il gradevole aspetto di entrate regolari. Quindi era più facile “gestire l’economia domestica”, cioè capire cosa ci si poteva permettere e cosa no.
Il posto “non dava solo una serenità contabile, ma offriva un’identità con cui presentarsi in società”. Molte persone erano il loro lavoro. Certo, c’erano le classi: si sentiva dire “sono un avvocato” piuttosto che “sono un netturbino”. Infatti questo non si dice. Ancora oggi, tu senti dire “faccio il netturbino”.
QUALITÀ
In questo mondo, cosa voleva dire “lavorare bene”? E come si faceva a verificarlo? Quanti riscontri tangibili esistevano della qualità del lavoro?
Per Cavalieri “lavorare bene significava impegnarsi, essere scrupolosi, disciplinati, attenersi alle linee guida”. Ma in tal caso il giudizio finale non era molto oggettivo, quanto soggettivo.
Quindi era il sistema nel suo complesso a funzionare. Il signor Chiari poteva essere competente e professionale nello svolgere il suo mestiere, ma “a esser bravo e a garantire la bravura dei singoli era il sistema”.
OGGI
Oggi che diavolo è il “lavoro”? Riuscite a capire cosa sia? Siete in grado di tracciare un recinto e di metterci dentro tutto quello che è “lavoro”? Io sinceramente no.
Ma la domanda da un milione di dollari è: se avete un lavoro, siete sostituibili in ciò che fate?
Questo è un quesito fondamentale perché se siete sostituibili, significa che probabilmente “non avete competenze tecniche distintive e non avete gli strumenti per interpretare il lavoro in modo imprenditoriale”. Significa che “siete costretti ad accontentarvi di salari sempre più esigui e di remunerazioni sempre più agganciate solo ai risultati”.
Se siete sostituibili, vuol dire che vivete in una dimensione di precarietà malpagata e probabilmente prima o poi verrete licenziati. Non per una vostra colpa, ma perché “il datore di lavoro avrà trovato un modo più economico per fare ciò che fate voi adesso”.
PERCORSI
Per fuggire da queste situazioni professionali piuttosto disumane, l’autore indica tre percorsi.
A) Diventare imprenditori
“Ah se fossi io a decidere…”. Quante volte la pensiamo questa cosa, eh? Quanto ci rode non essere inclusi nei processi decisionali? Basterebbe davvero poco..
Mettersi in proprio è da sempre un’opportunità che comporta grandi rischi, ma può dare soddisfazioni e libertà impagabili. Io personalmente non credo che sia alla portata di tutti, perché non tutti hanno uno spirito imprenditoriale.
Oltre a ciò, la scuola aiuta pochissimo a sviluppare le proprie capacità per renderle strumenti professionali. L’idea di fondo (che viene instillata ai giovani) è che il lavoro da trovare sia necessariamente alle dipendenze di qualcun altro.
B) Investire sulle proprie competenze
C’è ancora chi sostiene che nella vita prima si studia e poi si lavora? Che c’è una linea di demarcazione tra le due cose? Per diventare sempre meno sostituibili, bisogna studiare e specializzarsi continuamente. Certo, è essenziale “scegliere in modo strategico le aree di specializzazione, guardando a come cambia il mondo e individuando quelle competenze che non possono essere demandate a un robot”.
C) Spostarsi sulla relazione
La dimensione emotiva la lasciamo fuori dalla porta? Siamo impazziti o completamente scemi? Noi siamo persone e abbiamo bisogno di persone. Soprattutto nei luoghi in cui passiamo gran parte della nostra vita: gli ambienti di lavoro. È abbastanza palese che “più il nostro lavoro è ricco di momenti in cui conta la dimensione emotiva e comunicativa, più ci rendiamo insostituibili. Dev’essere però relazione di qualità”.
UMILTÀ, AMBIZIONE ED ETICA
C’è un matrimonio preferito tra quelli a cui avete partecipato? Il mio è un po’ strano. È un matrimonio a tre e si celebra tra umiltà, ambizione ed etica.
Ritengo che chi abbia un armonioso equilibrio tra queste qualità, possieda una marcia in più. Non per vincere, però. Non si tratta di una competizione.
Chi possiede umiltà, ambizione ed etica, ha maggiori strumenti. È più resistente ma tiene gli occhi aperti, non li chiude. La testa è alta, non abbassata.
Queste persone sono in grado, prima di altri, di “sviluppare una capacità critica di interpretazione della realtà. Questo consente loro di muoversi in anticipo per cavalcare i cambiamenti e non subirli”.
Queste persone saranno capaci di trovare un modo per lavorare e per avere il tempo di fare altro.
Probabilmente, sorridendo.
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In effetti ancora oggi in italia si usa un termine assurdo per definire colui che impiega il lavoro altrui: DATORE di Lavoro (lo sono stato pure io)! Proprio come se fosse lui a dare il POSTO e non il lavoratore a prestare le proprie braccia, testa, conoscenze.
Oggi confermo che sia quasi impossibile farsi imprenditore (eticamente), ed anche le competenze sono gran poco apprezzate in un’ottica mercantilistica su tutto (anche sulle persone e le relazioni).
Credo davvero che resti praticabile l’ultima strada, che insieme ad un sostanziale distacco dal Sistema, renda anche apprezzata la seconda e ci dia la possibilità di vivere delle nostre passioni. Citando Papa Francesco:” Todos tenemos derecho a un techo, tierra y trabajo”, dove quest’ultimo non è senz’altro inteso come un POSTO, ma una occupazione utile a noi stessi, la nostra famiglia e comunità.
Ciao Claudio, grazie per il tuo pensiero. Io sto lavorando sul punto B (competenze) ma anche sul C (relazioni). Per quanto mi riguarda, l’obiettivo del punto A (imprenditorialità) è stato l’inizio della svolta, ma sarà l’ultimo dei tre che realizzerò.
Sì, sempre che il Sistema glielo permetta…
La citazione iniziale contiene una grande verità e non solo per esperienza diretta dello scrivente: nemmeno Luzi, Zanzotto (poeti più volte in odor di Nobel, per chi non sapesse di chi sto parlando) campavano delle loro poesie; semmai dell’indotto, cioè conferenze, recensioni, interviste, ecc.
Come ogni essere vivente, anche il Sistema tende a replicarsi e a difendersi da “elementi sgraditi”: eliminandoli fisicamente nei Regimi assolutistici, ignorandoli se si è in Democrazia.
Quindi aggiungerei un quarto presupposto: la capacità di tenersi lontani dal Sistema stesso, nei limiti del possibile
Sì Alberto, vero. Tenere sempre occhi aperti, testa accesa e anticorpi attivati.