Come ci ricorda Ivan Illich, uno dei più grandi pensatori del Novecento, il concetto di “sviluppo economico” nella sua attuale accezione fa la sua comparsa il 20 gennaio 1949, nel celebre “Discorso dei Quattro Punti”, rivolto alla nazione dal presidente americano Truman, alla vigilia della ricostruzione post-bellica. Fino ad allora, il concetto di sviluppo era relegato all’evoluzione delle specie animali, al gioco degli scacchi e poco altro. Da quel giorno, e in meno di una generazione, hanno invece cominciato a pullulare le più disparate teorie sull’opportunità di inscatolare all’interno di quel concetto il vero destino dell’evoluzione del genere umano: se da un lato si ricordano i cosiddetti “pragmatisti”, coloro cioè che attribuivano alla vocazione imprenditoriale l’unica rotta salvifica perseguibile, dall’altro lato vi erano quelli che potremmo definire gli “aspiranti politici”, prevalentemente intenti a salvaguardare gli aspetti più “soft” del new-deal espansionistico, come per esempio l’intima realizzazione di se stessi. L’unico aspetto che accomunava le due correnti di pensiero era, guarda caso, che la salvezza sarebbe necessariamente dovuta passare per la crescita: entrambi sostenevano che l’unica via percorribile sarebbe stata l’incremento della produzione e, con essa, una maggiore dipendenza dai consumi. La cosa vagamente ironica, ci ricorda sempre l’immenso Illich, è che ciascuno dei due “schieramenti” utilizzava, in difesa delle proprie ragioni, la foglia di fico della Pace. Tanto che, all’epoca, schierarsi contro lo sviluppo, oppure contro quella che sarebbe diventata (come la chiamo io) l’ipnosi consumistica globale, significava essere additati come nemici della Pace. Persino Gandhi fu spesso rappresentato come uno sciocco, un romantico o uno psicopatico, tanto che molti suoi insegnamenti furono astutamente distorti (e, aggiungo, violentati) nell’equivoco concetto di “strategia di sviluppo non violento”.
Oggi, dopo 65 anni, è cambiato qualcosa? A cosa ha portato, davvero, quel new-deal? Quali sono stati gli effetti sulla civiltà di quella rivoluzionaria intuizione di Truman?
All’indomani del Dopoguerra, l’Occidente ha cavalcato a spron battuto gli stilemi della crescita ad ogni costo. Ai quali, aggiungo io, è stata surrettiziamente affiancata la suggestione sociale dell’irrinunciabilità. Tutto, in un modo o nell’altro, avrebbe potuto (e dovuto) essere raggiungibile: il lavoro, la carriera, il successo, i viaggi, le esperienze, fino a farcire queste prospettive con le loro derivazioni idealistiche: la libertà, l’amore, la bellezza…
La postmodernità ha astutamente previsto, per i suoi abitanti, l’illusoria prospettiva della pan-possibilità: tutto avrebbe dovuto essere percepito a portata di mano! Questa suggestione collettiva era, fuori da ogni discussione, diabolicamente perfetta: da un lato, garantiva continuità al paradigma economico dello sviluppo indiscriminato; dall’altro lato, soggiogava intere popolazioni, subordinandole a un imperativo di crescita che avrebbe sempre più richiesto un loro radicale asservimento al lavoro remunerato. Utile o inutile, questo era di secondaria importanza. Gratificante o alienante, questo era di importanza, invece, nulla.
E le… persone? Ah, già! Ci stiamo arrivando…
Sempre in quegli anni, ci ricorda stavolta Zygmunt Bauman (il maggior sociologo vivente) nel suo “Danni collaterali”, assistiamo all’esaltazione di un ruolo sociale con cui molti di noi, ancora oggi, fanno quotidianamente i conti: la figura del manager.
Come molti di voi, so benissimo anch’io cosa significhi oggi essere un manager. Tuttavia, solo recentemente ho imparato che questo ruolo prende forma e vita, proprio in quegli anni, con il solo scopo di intermediare tra la catena di montaggio e la proprietà, divenuta ormai incapace di controllare direttamente tutte le microfunzioni del processo produttivo (“La rivoluzione manageriale”, James Burnham). Il manager, diversamente da quanto comunemente si crede, non è quasi mai deputato a prendere decisioni, non gli vengono richieste particolari doti di lungimiranza o di problem-solving. No, niente di tutto ciò! Fin dai suoi albori, il manager deve fare essenzialmente due cose: osservare e riferire. Il perfetto morphing tra un vigilante e una spia. Avvilente? Forse, ma comunque ben remunerato! Unico requisito? La piena fiducia da parte della proprietà. (Quando mi viene chiesto come mai oggi non ci sia meritocrazia nel mondo del lavoro in Italia, io rispondo sempre: “La meritocrazia c’è eccome: si tratta solo di stabilire con quali prassi e atteggiamenti lo si vuole riempire, questo concetto…”.)
La figura del manager è quella che oggi, con decine di chili di manuali di organizzazione aziendale sugli scaffali delle librerie, potremmo definire una commodity: un servizio cioè esternalizzabile, in quanto rappresenta un’inutile (a volte, dannosa) interferenza tra la base produttiva e il vertice decisionale della piramide aziendale. Dico “dannosa” perché, in molti casi, assolvere a una mera funzione di rendicontazione di quanto avviene sotto di loro, si traduce spesso in un assorbimento di risorse economiche che potrebbero essere destinate ad investimenti a più alto ritorno. Se non altro in campo etico. Ma ormai lo sappiamo: come tutte le cose, anche la fiducia ha un prezzo, no?
Quindi, paghiamo pure la fiducia – si disse – ma insistiamo però su un altro imperativo, che ha preso sempre più piede dagli anni del boom economico ai giorni nostri: quello della produttività. E, con essa, arriviamo finalmente anche alle persone (che, come sarà ormai chiaro, occupano un ruolo periferico in tutto questo palinsesto organizzativo). La produttività, per tutti i policy-maker (dal Presidente del Consiglio, al numero uno di Confindustria, fino al vostro caporeparto), è uno snodo strategico imprescindibile: va salvaguardata a tutti costi. Ma… senza esagerare. Perché, se la carichi troppo, la schiena del ciuco rischia pur sempre di spezzarsi.
Ed è così che, come ci ricorda il premio Nobel per l’Economia Joseph Stiglitz, grazie anche a un progresso tecnologico ben più che lineare (esponenziale), nelle economie occidentali dagli anni Settanta ad oggi la produttività del lavoro è cresciuta a ritmi forsennati. Molto superiori – per esempio – alla dinamica dei salari reali medi. Ed ecco che, per i più avvezzi alle relazioni macroeconomiche, si spiegano così anche le vere cause degli attuali livelli (sub)occupazionali. Pensiamoci: per ottenere lo stesso bene o servizio finale – un cesto di mandarini, una stampa fotografica, un nuovo contratto telefonico o un qualsiasi altro bisogno (per lo più, indotto) – al giorno d’oggi occorrono molte ore di manodopera in meno. La filiera è molto più corta e, soprattutto, dove si può fare a meno dell’uomo, subentra la tecnologia. Quella di cui tuttavia non si può fare a meno è chiamata manodopera qualificata: sempre più rara, sempre più strategica, ma pagata sempre meno, in quanto, mediamente, i salari comunque diminuiscono (e, da qui, il tema delle disuguaglianze distributive, che non affronterò in questa sede, perché troppo vasto).
Tuttavia, proprio per tutelare la produttività (occhio: non i lavoratori), nel decennio a cavallo del nuovo millennio i soloni dell’organizzazione aziendale introducono un concetto nuovo, tanto suggestivo quanto ipocrita: la work-life balance (equilibrio lavoro-vita privata): nell’ambito di una vita dedicata prioritariamente al lavoro, occorre cioè consentire all’unità produttiva di distrarsi (dedicandosi alla famiglia, al tempo libero, agli hobby…).
Infine, è di un paio d’anni fa quella che mi piace definire “la controriforma”, perfettamente illustrata in questo articolo da una docente della SDA Bocconi, santuario italiano della dottrina neoliberista. La logica della work-life balance deve ora essere progressivamente sostituita con quella della work-life integration: lavoro e vita privata non devono cioè essere due “momenti” che, alternandosi, si completano vicendevolmente, bensì divenire due fasi della nostra vita che si compenetrano simultaneamente. Così, per fare un esempio banale, nessuno storcerà il naso se un lavoratore effettuerà una telefonata personale dall’ufficio, ma – simmetricamente – lo stesso lavoratore sarà poi dotato di blackberry, tablet o altri astutissimi “malefit” aziendali, in modo che possa poi essere mantenuto agganciato alla sua attività di giorno e, spesso, di notte (o, come oggi è molto più cool affermare, 24/7). In questa prospettiva, e citando ancora una volta Bauman,
[…] quei confini sacrosanti che separavano la casa dal luogo di lavoro, e il tempo da dedicare alla carriera da quello cosiddetto “libero”, sono praticamente svaniti; dunque, ogni attività della nostra vita diventa una scelta: seria, dolorosa e spesso seminale, tra carriera ed obblighi morali, tra impegni professionali ed esigenze vitali, nostre e di tutti coloro che hanno bisogno del nostro tempo, della nostra compassione, delle nostre cure, del nostro aiuto e della nostra assistenza.
Avete capito, adesso, in che pantano vi siete cacciati?
Questo mio articolo, poi ripreso da altre testate, è stato per la prima volta pubblicato dal quotidiano online “il Cambiamento“, che – ovviamente – invito tutti i lettori di LLHT a salvarsi tra i preferiti.
Ecco descritto in maniera teorica chiara quello che sta succedendo nella mia azienda: work-life integration. E un brivido mi è corso dietro la schiena.
Perchè un conto è stato provare repulsione per l’opportunità aziendale di poter accedere con il tuo “own” device alle risorse aziendali (posta elettronica, rete aziendale) e tutto un altro conto è rendersi conto che è parte di un piano più ampio e strutturato.
Che nulla viene fatto per caso.
Sono nel pantano.
Dall’articolo “Troppo work e poca life” della docente Bocconi indicato nel post:
Ciao.
Credo che sulla scomparsa dei confini lavoro-tempo libero la deriva sia anche più in là della semplice espansione del lavoro nel tempo libero: qualcuno in quelle pantomime che sono i corsi motivazionali lo chiama “il saper essere prima che il saper fare” e in soldoni si tratta di una dottrina secondo cui il lavoratore davvero buono dev’essere forgiato (e scelto) in un certo carattere, anche privato, adatto alla mansione. Per carità, il concetto dell’ essere “nato per fare il mestiere” è un concetto moderno, non postmoderno, ma era per lo più una prerogativa di ruoli speciali o molto irregimentati (mi vengono in mente il soldato e il poliziotto). Ora invece sembra che tu debba coltivare un’intera vita e un’intera anima (anche private) per fare il commesso di negozio o l’addetto alla contabilità. Fa un po’ Kafka, un po’ Prussia, non trovate? La modernità metà-novecento non si è dissolta, torna…depurata dei suoi aspetti liberali, dopo che i suoi recuperatori ne hanno distillato per noi quelli distopici.
Secondo me anche per quanto dici, vale la risposta che ho dato a Gabriella; in realtà il concetto “nato per fare il mestiere” è tutt’altro che moderno: era (ed è) alla base delle società impostate in maniera tradizionale, quindi parliamo anche di migliaia di anni fa.
Il punto è che funziona in positivo, solo quando il lavoro è (o è visto) con la stessa dignità della libera professione: non quando lo si applica – come giustamente fai notare tu – per fare il commesso di negozio; magari all’Ikea.
Qualcuno potrebbe obiettare: “Ma se hai appena detto che uno deve fare il mestiere per cui è nato? Se è nato per fare il commesso, che lo faccia nella bottega di suo zio o all’Ikea, non cambia nulla”. In realtà cambia che nel primo caso è una libera scelta, all’interno della quale ritmi e incombenze si possono discutere, mantenendo il lavoro entro confini “umani”; nel secondo, tutto ruota attorno alla produttività: ed è l’individuo che si deve adattare al lavoro – che lo sappia fare tanto o poco – non il contrario.
…Eppure credo che in un mondo-altro, il fatto che non esista separazione tra lavoro e casa, vita famigliare, vita privata o come chiamar la si voglia, sarebbe semplicemente auspicabile, naturale, “normale” (parola senza senso ma…). Potrebbe semplicemente significare: vivere. Certo bisognerebbe reinventare il ruolo o non-ruolo del profitto, dei “guardiani”, di tant’altro e quindi non c’è storia…!
La storia, invece, c’è eccome. E se te ne accorgi a quarant’anni, è ancora più nitida.
E proprio per questo… (si dice così, no?) stiamo lavorando per voi! 😉
The best is yet to come.
L’unico modo per avere quello che tu dici, sarebbe dare la possibilità a ciascuno di fare il lavoro che gli piace (una volta stabilito che c’è tagliato), dandogli nel contempo il controllo dei ritmi di lavoro.
E’ dura nel campo delle libere professioni (dubito che ci riesca più del 5-10% delle persone che intraprendono questa strada), figurarsi in una società economicamente irregimentata e asservita come questa…
L’ha ribloggato su La Chimica Dell'Amoree ha commentato:
“Sempre in quegli anni, ci ricorda stavolta Zygmunt Baumanesaltazione di un ruolo sociale con cui molti di noi, ancora oggi, fanno quotidianamente i conti: la figura del manager. solving. No, niente di tutto ciò! Fin dai suoi albori, il manager deve fare essenzialmente due cose: osservare e riferire. Il perfetto morphing tra un vigilante e una spia. Avvilente? Forse, ma comunque ben remunerato! Unico requisito? La piena fiducia da parte della proprietà. (Quando mi viene chiesto come mai oggi non ci sia meritocrazia nel mondo del lavoro in Italia, io rispondo sempre: “La meritocrazia c’è eccome: si tratta solo di stabilire con quali prassi e atteggiamenti lo si vuole riempire, questo concetto…”.)”
Oh se ho conosciuto bene questo aspetto, tanto bene che mi sono rifiutata di accettare di diventare un sorta di soldatino che fa il gioco della company contro ogni logica. Ti vogliono lobotomizzato pronto a sostenere le politiche di controllo…é chiaramente un sistema calibrato per creare dei deficienti pronti a tutto per carriera e soldi, anche a rinnegare se stessi!