In barba alle direttive europee e al principio che il contratto di lavoro di riferimento è quello subordinato a tempo indetrminato, le misure del governo Renzi, liberalizzando totalmente il contratto a tempo determinato e l’apprendistato, rendono il contratto a termine (sino a tre anni, rinnovabile ben 8 volte) l’architrave del mercato del lavoro e ne sancisce la definitiva precarizzazione. Oltre a rendere la precarietà giuridicamente strutturale (già lo è nella realtà) pone una serie di questioni rilevante in tema di rappresentanza. Come reagire?
E’ stato pubblicato in data 20 marzo sulla Gazzetta Ufficiale, con la firma del Presidente della Repubblica, il decreto legge numero 34/2014. E’ senza alcun dubbio la più violenta aggressione ai diritti dei lavoratori di questi ultimi anni, nessun governo di destra aveva mai osato tanto; nessuna legislazione europea contiene una liberalizzazione così ampia e totale del contratto a tempo determinato, che diventa di fatto la forma ordinaria delle assunzioni, in palese contrasto con la direttiva 99/70 dell’Unione.
Napolitano e Poletti, due ex comunisti, si sono prestati a colpire, con la complicità dell’ambizioso Matteo Renzi, i ceti deboli e precari, istituzionalizzando il ricatto e la minaccia che accompagnano la condizione precaria, unico possibile accesso al lavoro e al reddito. La scelta autoritaria (repressione e cancellazione delle tutele) caratterizza il governo delle larghe intese, privo ormai anche di investitura popolare, e tuttavia deciso ad evitare perfino il passaggio parlamentare.
E’ necessaria una riflessione sullo stato della democrazia rappresentativa in Italia, quale necessario strumento di lettura del decreto (di immediata attuazione, dunque già ora in vigore). Il Partito Democratico, senza i voti di SEL, non avrebbe il premio di maggioranza, ma SEL è confinata all’opposizione; 5 Stelle (la sigla più votata) è contro il governo; della destra coalizzata Lega e Forza Italia di dicono contrari. Il voto di fiducia è frutto di una legge elettorale che la Corte Costituzionale ha deliberato illegittima (contro la Carta) e di una ennesima variante del trasformismo italiano. La compagine di governo impone con la prepotenza le ragioni di chi ha deciso di allargare la forbice ricchezza/povertà, di espropriare la fascia debole per risolvere la propria crisi.
L’articolo 1 del decreto consente di assumere a termine, sempre e senza alcuna reale motivazione, sia direttamente sia utilizzando le agenzie di somministrazione. Ogni impresa è libera di scegliere fra assunzione stabile e assunzione precaria; dunque viene di fatto cancellata dal nostro ordinamento (per almeno un triennio) qualsiasi assunzione a tempo indeterminato (quale imprenditore, se non uno scemo destinato al fallimento, potrebbe scegliere un contratto meno favorevole, potendo evitarlo?). Il testo va letto con attenzione. Il limite del 20% è una soglia insuperabile, perché riferita all’intero organico: in un periodo di licenziamenti e di riduzione dell’organico la quota di fatto copre qualsiasi nuovo ingaggio. La cancellazione della causale (intesa come requisito necessario e oggettivo per l’utilizzo del contratto a termine) consente inoltre operazioni di sostituzione di lavoratori licenziati (anche con procedure collettive) con altri meno costosi e garantiti; basta, secondo l’articolo 3 del decreto 368/2001, munirsi di accordo aziendale o anche semplicemente modificare l’inquadramento (le stesse mansioni sono un concetto in fondo assai sfuggente nelle società di capitalismo avanzato).
Il nuovo testo consente l’assunzione, e successivamente ben otto proroghe; ma, attenzione, nell’ambito dei 36 mesi di utilizzo massimo, niente impedisce all’impresa (con il solo breve intervallo dell’articolo 5 del decreto 368/2001 e facendolo magari coincidere con le ferie) di fare due o tre o quattro contratti, ciascuno con otto proroghe. L’unico limite rimane quello dell’articolo 5 del decreto, i 36 mesi con una pluralità di contratti. Ma per 36 mesi di effettivo lavoro (escluse le pause fra un contratto e l’altro) ogni impresa può frazionare l’utilizzo anche in quote mensili o bimestrali. Mi spiego: di mese in mese posso decidere (per otto volte) se prorogare o meno, comunicandolo all’ultimo a chi lavora (e lasciandolo nella costante incertezza, dunque rendendo stabile la condizione precaria in luogo di rendere stabile l’aspettativa di retribuzione).
Se invece di prorogare l’impresa decide di sospendere il rapporto per qualche settimana (o per accompagnare la produzione in forma flessibile o per punire o per semplicemente consentire la rotazione di un serbatoio), potrà poi stipulare liberamente un nuovo contratto, ancora con otto proroghe. Questo perverso meccanismo introdotto da Poletti&Renzi risolve anche, in prossima prospettiva il problema del trattamento di maternità: basta non prorogare il contratto alla lavoratrice in gravidanza (o non stipulare quello successivo) e l’impresa si evita spiacevoli maternità a rischio, assenze facoltative, divieti di licenziamento fino al compimento di un anno (ed anche in caso di matrimonio, basta attendere la più vicina scadenza e tanti saluti alla sposa!). Abbiamo scritto delle lavoratrici madri; ma con il frazionamento si cancellano di fatto anche le tutele per chi incorra in infortunio, chi sia vittima di malattia. Con lo spirare del termine (frazionato e sempre ravvicinato) l’impresa si libera di un peso, senza renderne conto a nessuno. La forma del contratto a termine, nel limite di 36 mesi complessivi, può essere indifferentemente quella dell’ingaggio diretto come della somministrazione a mezzo di agenzia d’intermediazione.
Questo è il decreto appena varato: hanno avuto la faccia tosta di chiamare questa operazione di macelleria sociale semplificazione e di invocare, quanto a necessità ed urgenza nientemeno che il fine di generare nuova occupazione, in particolare giovanile.
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Le ulteriori disposizioni varate.
Sempre in via urgente (articolo 2) lo sceriffo di Nottingham (mediante metempsicosi trasmigrato nei corpi di Renzi&Poletti) ha modificato il contratto di apprendistato (che già era scandaloso, pieno di falle). Ora siamo al capolavoro; non solo viene eliminato il piano formativo (e non si sa più quale sia il contenuto della pretesa formazione) ma si consente (per il bene immediato dell’economia e del mercato!) l’apprendistato anche a chi caccia (al termine della formazione) tutti i precedenti apprendisti. E si esentano le imprese da qualsiasi obbligo di formazione esterna all’azienda (si impara solo lavorando sul posto!) e legittimando una fortissima riduzione dei minimi contrattuali di riferimento.
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A questo punto come contrastare dunque questa durissima aggressione?
Ritengo che si debba, rapidamente e senza indugio, mettersi al lavoro e, senza porre steccati, costruire ovunque possibile ogni forma di coalizione che porti alla cancellazione radicale del decreto; dobbiamo tentare di impedire che sia convertito il legge o il prezzo da pagare sarà davvero salato.
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Un dirigente del movimento cooperativo (ed ex funzionario del partito comunista) come Poletti e un cattolico del movimento scout come Renzi si sono rivelati peggiori di qualsiasi precedente rappresentante di governo (destra o sinistra), e contano di ottenere via libera per realizzare il disegno repressivo, depredando i ceti popolari e il già dissestato precariato in favore degli apparati di potere. Ci attendiamo che i parlamentari di opposizione portino il conflitto dentro l’aula, mettendo a nudo le contraddizioni, con l’obiettivo di cancellare questo orrore; i movimenti antagonisti debbono trovare il modo di aprire invece lo scontro sociale, imponendo alle organizzazioni sindacali di lottare o sparire. Il momento è grave. Il governo ha già colpito aumentando i costi di energia e di carburante; ha di nuovo aggredito tassando le prime case e i servizi essenziali come la rimozione dei rifiuti; ora impone il ricatto delle continue scadenze per dare lavoro, con l’inevitabile diminuzione del salario (nominale e reale). La rivolta fiscale saldata alla rivolta dei lavoratori contro il deterioramento delle condizioni retributive ed esistenziali si presenta davvero come un’opportunità. Ma va colta subito, altrimenti finiranno ancora una volta con il prevalere la paura, l’angoscia, il timore del futuro, la nuova schiavitù imposta dal governo delle larghe intese.
( fonte integrale: Jobs Act: Renzi, Poletti e il fantasma dello sceriffo di Nottingham – di Gianni Giovannelli )
Ho riportato l’articolo su indicazione di un’amica lettrice, più che altro per denunciare l’ulteriore e indisponente asservimento da parte della politica italiana ai disumanizzanti dettami neoliberisti che governano la società. Personalmente, ritengo tuttavia che la regolamentazione in entrata e in uscita dal mondo del lavoro non rappresenti la principale urgenza.
Il principale problema, a mio parere, è purtroppo assai più esteso e radicato. E riguarda la natura stessa del mondo del lavoro: come ho avuto modo di ricordare anche recentemente (“Non sarà una passeggiata“), occorre ribaltare completamente l’attuale modello lavorativo-consumistico, ripristinando e valorizzando le attività capaci di soddisfare i bisogni primari dell’uomo (nutrirsi, curarsi, riprodursi, salvaguardare l’ambiente) e smantellando progressivamente tutte le altre. Per usare uno slogan: più primario e meno terziario.
Io resto infatti dell’idea che l’unico modo per superare questa crisi sia… esasperarla. Accelerandola.
Andrea
Più primario, giusto. Un primario che tuttavia è vittima di burocrazia e regolamenti che mi risultano essere kafkiani e a misura di agricoltura intensiva. Riscoprire la terra mi pare essere la sola strada coerente e utile a sé e agli altri, ma che sia con un’agricoltura contadina. Cercare di fare di questafare di attività legate alla terra una impresa redditizia, allo stato attuale, appare un suicidio. Dunque coltivare per sé, per un circuito chiuso e virtuoso, una dimensione diversa. Ma coltivare e fare rete, possibilmente in una dimensione locale, come indica fra gli altri, il movimento della transizione.
Hai ragione: basta vedere la regolamentazione sui semi, che ti fa quasi rischiare la galera se solo ti azzardi a coltivare un pomodoro in balcone!
Quando parlo di agricoltura, esattamente come indichi tu, intendo considerarla anche e soprattutto come il principale canale, utile alla riscoperta dei valori di una civiltà più legata alla terra e, necessariamente, su base microcomunitaria.
Ma mi rendo conto sia una cosa suggestiva, ma di difficile realizzazione. Anche se i segnali non mancano: proprio stamattina, leggevo sul Sole che John Deere (primo marchio di macchine agricole USA) ha “drizzato le antenne” sull’Italia. Evidentemente, qualche segnale sta levandosi…
Ciao!
Davvero interessante ! Ne approfitto per segnalarti il mio blog, così magari seguendolo puoi trarne nuovi spunti… O nascere l’idea di un articolo a 4 mani! socialmarkethics.com
Ti ho risposto privatamente, Cristiano. Ciao.
Andrea, concordo con te e la parola “coraggio” dovrebbe diventare un mantra sociale a cui dovrebbe seguire l’azione consapevole. Lo ha detto con migliori parole Diego Fusaro ieri sera ad Ancona. Conosciuto grazie al video che hai postato qualche tempo fa su LLHT; grazie per lo spunto nutriente. Francesca
Al giorno d’oggi, ci vuole… coraggio, ad avere coraggio!
Diego Fusaro, i cui contenuti non mi stancherò comunque mai di proporre, sta (troppo) velocemente emergendo. Il rischio che molto sinceramente vedo, per lui, è l’inevitabile seduzione con cui sa irretirti la notorietà. Per quanto ci si sforzi di proporsi come “liberi pensatori”, nel momento in cui ci si assoggetta al dogma niciano del “maggior numero”, si rischia inevitabilmente di smarrire il proprio peso specifico.
Il più grande di tutti e di sempre (Ivan Illich) costringeva i giornalisti che lo intervistavano a spegnere il registratore. Le idee dovevano passare per lo sforzo, solo umano, dell’interlocutore: il dominio della tecnica, almeno in parte, era così sovvertito.
E oggi, forse anche un po’ per questo, si parla ancora più fragorosamente di lui.
Ciao