Vi è qualcosa nell’aria di montagna che pervade lo spirito e lo nutre. […] Il mio stato d’animo infallibilmente s’innalza in misura proporzionale all’essenzialità del paesaggio.
(H. D. Thoreau)
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E’ normale non trovarle. Le parole, dico. E’ normale affidarsi quindi a colui che più di ogni altro ha saputo descrivere le sensazioni che assalgono chi, camminando, afferma un modo di essere.
Ti ci perdi, su quel crinale. Ma è la tua sensazione di impotenza, di fronte alla vastità di quell’orizzonte, a darti comunque la percezione del tutto. La parola è una sola: gratitudine.

Veduta del crinale appenninico tosco-emiliano, dal sentiero 00 in zona Lago Scaffaiolo. In fondo sulla sinistra si riconosce il Libro Aperto, mentre a destra svetta il Cimone.
Una volta, alla cerimonia di premiazione di un concorso letterario, John Berger disse:
Una montagna occupa sempre il medesimo posto, e la si può quasi considerare immortale. Ma chi la conosce bene, sa che non si ripete mai: la sua è una scala temporale diversa dalla nostra.
Le montagne hanno un tempo diverso. E, nella loro imperturbabile solennità, evocano un tempo infinito in uno spazio possibile. Le montagne scavano nella memoria. E portano a galla ricordi sepolti da anni. Su di me, almeno, hanno questo effetto. Sempre durante quella camminata, è riaffiorato un vecchio detto Sioux:
Io credo che i sassi respirino: non riusciamo a percepirlo, con le nostre brevi esistenze.
E’ questo, per me, la montagna: sentirsi parte di un disegno i cui confini piacevolmente sfuggono. Come dice ancora una volta Thoreau, nei miei vagabondaggi cerco sempre di far ritorno a me stesso.
Inevitabilmente, quando sei lassù, la mente a volte scivola a valle. Cose e piccole questioni a cui non dovresti dare importanza, ma che fanno comunque capolino, quasi a rivendicare una porzione della tua contemplazione estatica: le parole dell’Alpino del giorno prima, gli amici che non rivedevi da tempo incontrati giù in piazza, le risate con loro, le luci accese della finestra di un casolare nel crepuscolo. Schegge di quotidianità. E i loro inevitabili riflessi. No, lassù non dovrebbe esserci nulla di tutto ciò. E spesso, infatti, non c’è…
L’uomo con le sue faccende, Chiesa e Stato e scuola, e i suoi traffici e i suoi commerci, le sue fabbriche e la sua agricoltura, e la sua politica, la più pericolosa di tutte: mi rallegra vedere quanto poco spazio occupino nel paesaggio!
Camminare in quota serve proprio per sentirsi infintamente piccoli. E’ un grande insegnamento che solo la montagna può darti.
Il mare, invece, no. Almeno, non a me. Il mare produce l’incantevole disorientamento dell’infinitezza. Ma, dopo averne sperimentato l’infinitezza, appunto… ti fermi. E’ inevitabile: la elabori e la accetti, quella infinitezza. Ma al suo cospetto ti fermi. In montagna, quella stessa infinitezza si tinge invece di perimetri. Lontani. Sfuocati. Irraggiungibili. Che seducono la tua brama (tutta terrena) di comprensione. Ma che comunque non la esauriscono, né la esaudiscono. O… sì?
Ed è in questa piccola e irrisolta appendice di incertezza che tu, essere umano, torni ad… essere umano. Diventando grande. Immenso. Perché sai che quell’infinita visione, in montagna, in una qualche misura può inchinarsi alla tua volontà. Se… cammini. Se trovi la forza per procedere. Ed è proprio questo l’insegnamento che niente altro al mondo può darti: in montagna qualche volta ti lasci l’orizzonte alle spalle, perché – raggiungendolo e superandolo – hai superato te stesso.
Non tutti gli uomini sono in grado di adattarsi in egual misura alla civiltà; e se la maggioranza, come cani o pecore, ha una naturale disposizione alla remissività, non è questo un motivo per soggiogare la natura degli altri uomini al punto di ridurli al loro stesso livello.
Lassù ci sei solo tu. E non conta il fatto di essere più vicino al cielo, no. Lassù sei l’incontrastato protagonista di una dimensione universale e terrena al tempo stesso. Infinita ma percorribile. Annichilente ma, in qualche modo, rivitalizzante. Lassù può succedere di tutto.