Fermarsi. Ogni tanto. Un po’.

Le certezze. Quelle particelle elementari di fiducia in noi stessi e nel mondo che a volte stancamente inseguiamo. Gli eroi. I nostri, almeno. Quelli su cui proiettiamo le nostre illusorie convinzioni di una presunta potenzialità. Essere potenti. Acquisirne la consapevolezza. Illusionismi d’oltreoceano. Utili soltanto al dogma dell’utilità economica. Essere consapevoli di un’abissale fragilità: in questo sta invece la nostra potenza. In questa briciola di pane, caduta ieri sera di fianco alla tastiera, è racchiusa la stessa potenza che quattordici miliardi di anni fa generò il Big-Bang. Infinitamente grande e infinitamente piccolo. E, in mezzo, noi. Con le nostre puerili corsette a ostacoli. I gomiti affilati. Le pochezze quotidiane. Frammenti di ambizioni preparate in laboratorio e iniettate nelle nostre vene senza che opponessimo alcuna resistenza. Ti fermi mai? Sospendi mai per un attimo la frenetica rincorsa all’affermazione di un principio non certo tuo (sarebbe un carico eccessivo, suvvia…), ma comunque, impalpabilmente, totalizzante?

Panchina

La “mia” panchina, in una foto di marzo.

E allora ogni tanto metti in pausa. Riponi i libri sugli scaffali. Fai riposare anche i tuoi alfieri, le tue torri e le tue regine, posizionandoli con cura dietro a una fila di pedoni, in attesa di un nuovo squillo di tromba. C’è l’altalena delle opportunità, certo. Che assai presto si rivela però soltanto una confortevole distrazione. Ci sono quelle bombardanti metriche del web, adesso. Ci sono i nuovi follower. Che, se per qualcuno sono la valuta del terzo millennio, per te diventano il sottile e fragrante attestato di una qualche credibilità. Ci sono tutti questi anfratti, certo. Nei quali smarrisci intenzionalmente l’equilibrio, per arrivar quasi ad apprezzare quella sensazione di irrisolta indefinitezza. Ogni fine coincide con un nuovo inizio. E’ sempre stato così. Anche il Big-Bang, in fondo, nacque dalla fine di qualcosa. D’altro.

Ma non puoi spingerti fin lì, ovvio che no. E allora esci di casa, come qualche giorno fa. E vai a fare una passeggiata. Due chiacchiere ellittiche con un vicino di casa. Poi arrivi con calma alla “tua” panchina. Fermi anche i tuoi muscoli, oltre ai neuroni. L’immagine della briciola di pane che rinsecchisce. Sui libri si stratifica la polvere. Anche Illich dorme, adesso. Come tutti gli altri. E come i ricordi. Paralisi totale. Al punto da ignorare addirittura un sankalpa qualsiasi, che bussa alla tua porta senza troppa convinzione. Lo lasci fuori. Hai bisogno di condensarti in un pensiero, uno solo. Di lasciare fuori ogni emozione, ogni persona, ogni cosa. Fermarsi. Almeno ogni tanto. Per un po’. In quell’attimo di estatica sospensione, fa capolino una vecchia massima di Eleanor Roosevelt, che ti scolpirono nella testa quando nemmeno potevi intuirne il significato: le grandi menti parlano di idee, le menti mediocri parlano di fatti, le piccole menti parlano di persone. Fuori tutti, adesso: idee, fatti e persone.

E fuori anche il tuo bloc-notes, allora. Su cui incidi distrattamente un’ammissione dispotica.

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Un rifugio. Appartato e sicuro. La tua grandiosa precarietà. Eccola allora, la certezza di cui avevi bisogno. Scolpita sulla carta (e, da adesso, anche in qualche server californiano). E il vortice dei dubbi pian piano si dilegua. Mentre sopra di te, invece, le nubi si scompongono e si rimescolano, come fiumi di lava cinerea sospesi nel cielo. La luce del crepuscolo si fa più gravida e minacciosa. Da pungente, l’aria diventa magnetica. Non trafigge: smembra. E il tuo appagamento va ben al di là di un innocuo temporale estivo. Riponi il bloc-notes nella bisaccia e, mentre t’incammini verso casa, afferri una ad una le maniglie delle porte che avevi chiuso. E abbassi la mano. Sposti di nuovo i pedoni, sfili dalla mensola i libri e riporti a galla tutto il resto. Sul volto, nuovamente, un sorriso.

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Rientrato a casa, preparo uno dei miei sughi preferiti. Recentemente leggevo come per Marx il prerequisito per un’attività professionale gratificante fosse la possibilità di poter ritrovare se stessi nell’oggetto del proprio lavoro. (Si capisce bene il motivo per cui tante professioni risultino spesso alienanti, no…?) Si chiama sugo ai broccoli, o come volete chiamarlo voi. Sono gli ultimi che ho trovato, fino a settembre non ce ne saranno altri.

Si fanno bollire due broccoli, tenendo da parte l’acqua di cottura. Si taglia a cubetti piccolissimi una decina di carote e si fanno a fette quattro cipolle e due scalogni. In una padella grande si fanno dorare gli scalogni con un filo d’olio. Poi si aggiungono le cipolle e un altro po’ d’olio. Quando si sono cotte, si aggiungono le carote insieme a un paio di bicchieri di vino bianco (va benissimo anche quello avanzato dall’ultima cena con gli amici, ma non fate a meno del vino: è fondamentale). Dopo dieci minuti, giù anche i broccoli sminuzzati, insieme all’acqua di cottura e un bel po’ di curcuma. Far cuocere finché l’acqua non è assorbita e… il più buon sugo per condire la pasta (o da usare come contorno) è pronto! Con queste dosi, ci si condisce otto volte la pasta per due persone.

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Separatore

Poiché recentemente un paio di persone mi hanno chiesto privatamente un’opinione sulla riforma della scuola, approfitto di questo post “modulare” per fornire un breve commento. Ostinarsi a ritenere che come popolo possiamo ancora essere gli artefici del nostro destino è sintomo, oltre che di superficialità, di imperdonabile ottusità. Ciò che questo governo sta facendo del nostro Paese non lo decide l’Esecutivo, ma lo ha da tempo già deciso l’Europa. Il funambolo fiorentino e i suoi giullari di corte hanno soltanto lo scopo di addolcire la pillola, con qualche bella trovata mediatica. I cortei, le manifestazioni degli insegnanti, degli studenti, i presidi-sceriffo e tutte le belle trovate giornalistiche ideate per illudervi di contare ancora qualcosa, mi inducono reazioni che oscillano tra le risate e la pietà. Al punto 5 delle ultime Raccomandazioni del Consiglio Europeo per l’Italia, emanate dalla Commissione Europea mercoledì scorso e di cui Bruno Vespa e Lilly Gruber vi tengono accuratamente all’oscuro, è chiaramente scritto:

[…] nell’ambito degli sforzi per ovviare alla disoccupazione giovanile, adottare e attuare la prevista riforma della scuola e ampliare l’istruzione terziaria professionalizzante.

E’ tutto già ampiamente deciso a priori da qualcun altro. Ed è per questo che dedicarsi ai broccoli è certamente la scelta più saggia e salutare, fidatevi.

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3 risposte a “Fermarsi. Ogni tanto. Un po’.

  1. Questa è poesia in un pezzo bellissimo che, oltre a far riflettere, assume inaspettatamente diversi colori (un po’ come i colori di quella padella). Questa è poesia a cui mi verrebbe voglia di rispondere con poesia, ma solo perché adesso è notte e mi piace pensare. Allora mi fermo, rileggo, rifletto.

  2. Fermarsi. Si, ogni tanto fermarsi. Fermarsi per guardare dove siamo, quanta strada abbiamo fatto. Era quella giusta? Mi porta dove voglio andare? Ma lo so dove voglio andare? Che sto facendo?
    Ricordo che nei momentacci dell’adolescenza usavo buttarmi sul lettino singolo della cameretta e guardando il soffitto e ascoltando il vocìo dei bambini nel parchetto, riflettevo. Mi fermavo.
    Adesso mi accorgo che è una vita che non lo faccio più. Si tira dritto. Avanti a tutto vapore! Va bene, va male, è la strada giusta o quella sbagliata non ce lo domandiamo più. Siamo adulti. Non abbiamo tempo. Non abbiamo incertezze. Non possiamo vacillare.
    Invece fermarsi a riflettere ogni tanto è importante. Ti fa riprendere la dimensione di te stesso. Ricalibra la cadenza del passo.
    Abbandonare tutte le tecnologie, le strategie, le avventure o le sventure digitali, sospendere il pensiero e il giudizio per preparare la tua pietanza preferita (il sugo di broccoli o il ragù di carne) riprendendo il contatto con le cose semplici e naturali, gli ingredienti, è senz’altro una buona fermata. Poi, quando tagli le cipolle e fai il “battuto” è giustificabile e giustificata anche quella lacrima vera che si confonde fra quelle indotte.

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