L’investimento di energie nel lavoro non viene valutato in base a un effettivo tangibile vantaggio professionale e aziendale, ma come valore in sé.
[…] Esistono certamente momenti in cui scegliere di sopportare in silenzio resta l’unica soluzione, ma quando ci accorgiamo che abbiamo esteso questa tattica dal breve periodo a uno stile di vita, dovremmo fermarci e considerare una soluzione più costruttiva.
Beatrice Bauer
Leggo oggi sulla homepage del Corriere che la nuova Legge di Stabilità prevede l’introduzione del “lavoro agile”. O agility-job, penso subito, prendendo spunto dalle prove di destrezza che molti cinofili fanno fare ai loro amici a quattro zampe (agility-dog).
“Agile è definita la prestazione dai lavoratori dipendenti fuori dai locali aziendali” si legge subito. WOW, mi lecco subito i baffi e comincio a sognare ad occhi aperti! Vuoi vedere che sono uscito dal mondo del lavoro tradizionale proprio un attimo prima che questo mettesse la testa a posto? 😉 Mi butto voracemente sull’articolo e… i sogni si infrangono meno di dieci righe dopo, dove puntualmente leggo: “Lo smart-working punta a far crescere la produttività, conciliandola con le motivazioni e la flessibilità del dipendente, impiegato o manager.”

Se le macchine producono tutto ciò di cui abbiamo bisogno, il risultato dipenderà da come questo sarà distribuito. Chiunque potrà godersi una vita di piacere soltanto se il benessere prodotto dalle macchine sarà condiviso, altrimenti – qualora le lobby tecnologiche si opporranno alla distribuzione di ricchezza – la maggior parte delle persone scivolerà in condizioni di povertà. Ad oggi, il trend sembra orientato alla seconda opzione, con la tecnologia che spinge iniquità continuamente crescenti. (S. Hawking)
Dico, neanche dieci righe per sognare mi lasciano, che subito spunta la parolina magica: produttività!
Non serve scomodare Joseph Stiglitz per scoprire che negli ultimi cinquant’anni, in Occidente, la produttività del lavoro ha registrato un incremento tremendamente superiore a quello dei salari reali, decretando di fatto l’irreversibile inutilità di sterminate masse di lavoratori specializzati, ormai del tutto superflui per supportare un’Offerta aggregata che, fortunatamente, la Domanda non è più in grado di assorbire. Non serve leggere Stephen Hawking, altro personaggetto di trascurabile importanza, che si è recentemente occupato dell’insaprimento delle iniquità distributive, quale effetto collaterale di un mondo del lavoro sempre più tecnologizzato ed emancipabile dall’apporto umano. E non serve nemmeno conoscere le teorie di Jeremy Rifkin per accorgersi che la forma mentis neoliberista è destinata nel prossimo futuro ad arroccarsi in nicchie sempre più ristrette ed esclusive, lasciando al di fuori di esse una società sempre meno tutelata, ma auspicabilmente dedita alla costruzione di un nuovo commons-collaborativo. E, scusandomi per l’indegno affiancamento, non serve nemmeno leggere Vivere Basso, Pensare Alto per intuire come il capitalismo – avviandosi verso la conclusione delle sue fasi “mercantile” e “finanziaria” – pieghi ora verso il suo ultimo stadio, assai più pervasivo e minaccioso dei precedenti, che ho definito “capitalismo relazionale” e in cui la fame di accumulo sprigionerà i suoi nefasti effetti nei confronti non più delle merci o del denaro, ma del… tempo. Il nostro.
Ed ecco allora arrivare puntualmente l’agility-job, il lavoro agile, ennesimo e sopraffino gioco di prestigio per immolare le nostre esistenze al culto della merce, dello scambio, del prodotto, illudendoci però al tempo stesso di rispettare e tutelare il nostro bisogno di equilibrio. Perché, mi spiace infrangere così anche il sogno di tanti, ma lo abbiamo appena visto: lo scopo si chiama ancora una volta produttività. E non ci sarà lavoro agile o remoto che tenga, di fronte alle pulsioni stakanoviste del capetto di turno, che – per non deludere a sua volta il proprio capo – non si preoccuperà certo di conoscere l’orario di pausa del suo collaboratore, prima di pretendere da lui una solerte risposta alla mail che avrà inviato non appena gli è passato per la testa. Lo smart-working starà al lavoro tradizionale esattamente come gli smart-phone e i tablet stanno alla (sigh!) posta pneumatica o anche solo a un pc: ci renderà più liberi e flessibili apparentemente, ma concretamente (e psicologicamente) saremo più asserviti e pilotabili di prima. Soprattutto in un Paese come l’Italia, dove l’ubbidienza e l’impegno fine a se stesso contano notoriamente assai più del merito e del risultato; dove cioè misurare la qualità di una prestazione con un orologio è assai più facile che farlo con un vero MBO, Management By Objectives (che, infatti, spesso serve proprio soltanto a nascondere l’orologio).
Chiudo questo post con un articolo risalente a qualche anno fa, che mi fornì un’ulteriore e implacabile chiave di lettura per decodificare la perversione della mentalità iper-produttiva e iper-consumistica del mondo che mi sono ormai fortunatamente lasciato alle spalle. E’ un articolo lucidamente spietato, soprattutto perché non è scritto da un downshifter come me, ma nientepopodimeno che da una docente della Bocconi, tempio sacro del neoliberismo economico e della dittatura del profitto che sta atrofizzando le nostre vite e il nostro futuro.
Da Troppo work e poca life di Beatrice Bauer:
Grazie a regole sociali e tradizioni, la vita dei nostri nonni era meno problematica della nostra nella gestione della dicotomia privato-lavorativo. Il tema del bilanciamento tra lavoro e vita privata è diventato di interesse sociale solo negli ultimi decenni: le nuove tecnologie hanno modificato gli aspetti temporali e strutturali del lavoro rendendo i tradizionali confini con la vita privata non più netti, ma tali da sostituire la terminologia work life balance con work life integration.
Purtroppo, nell’integrazione ha prevalso il lavoro, che diviene pervasivo se l’individuo o la società non sviluppano reazioni adeguate. Non esistono però facili soluzioni standardizzabili o appaltabili ad altri, qualunque sia la terminologia utilizzata per definire il problema della gestione della nostra vita tra multipli ruoli sociali, esigenze personali e aspettative familiari. [Continua…]