Il rimedio è la povertà

di Goffredo Parise (1929-1986)
Articolo comparso sul Corriere della Sera del 30 giugno 1974, della cui segnalazione ringrazio l’amica S.
Tempo di lettura stimato: 6m 36s

Separatore

Questa volta non risponderò ad personam, parlerò a tutti, in particolare però a quei lettori che mi hanno aspramente rimproverato due mie frasi: «I poveri hanno sempre ragione», scritta alcuni mesi fa, e quest’altra: «il rimedio è la povertà. Tornare indietro? Sì, tornare indietro», scritta nel mio ultimo articolo.
Per la prima volta hanno scritto che sono “un comunista”, per la seconda alcuni lettori di sinistra mi accusano di fare il gioco dei ricchi e se la prendono con me per il mio odio per i consumi. Dicono che anche le classi meno abbienti hanno il diritto di “consumare”.
Lettori, chiamiamoli così, di destra, usano la seguente logica: senza consumi non c’è produzione, senza produzione disoccupazione e disastro economico. Da una parte e dall’altra, per ragioni demagogiche o pseudo-economiche, tutti sono d’accordo nel dire che il consumo è benessere, e io rispondo loro con il titolo di questo articolo.
Il nostro paese si è abituato a credere di essere (non ad essere) troppo ricco. A tutti i livelli sociali, perché i consumi e gli sprechi livellano e le distinzioni sociali scompaiono, e così il senso più profondo e storico di “classe”. Noi non consumiamo soltanto, in modo ossessivo: noi ci comportiamo come degli affamati nevrotici che si gettano sul cibo (i consumi) in modo nauseante. Lo spettacolo dei ristoranti di massa (specie in provincia) è insopportabile. La quantità di cibo è enorme, altro che aumenti dei prezzi. La nostra “ideologia” nazionale, specialmente nel Nord, è fatta di capannoni pieni di gente che si getta sul cibo. La crisi? Dove si vede la crisi? Le botteghe di stracci (abbigliamento) rigurgitano, se la benzina aumentasse fino a mille lire tutti la comprerebbero ugualmente. Si farebbero scioperi per poter pagare la benzina. Tutti i nostri ideali sembrano concentrati nell’acquisto insensato di oggetti e di cibo. Si parla già di accaparrare cibo e vestiti. Questo è oggi la nostra ideologia. E ora veniamo alla povertà.
Povertà non è miseria, come credono i miei obiettori di sinistra. Povertà non è “comunismo”, come credono i miei rozzi obiettori di destra.
Povertà è una ideologia, politica ed economica. Povertà è godere di beni minimi e necessari, quali il cibo necessario e non superfluo, il vestiario necessario, la casa necessaria e non superflua. Povertà e necessità nazionale sono i mezzi pubblici di locomozione, necessaria è la salute delle proprie gambe per andare a piedi, superflua è l’automobile, le motociclette, le famose e cretinissime “barche”.
Povertà vuol dire, soprattutto, rendersi esattamente conto (anche in senso economico) di ciò che si compra, del rapporto tra la qualità e il prezzo: cioè saper scegliere bene e minuziosamente ciò che si compra perché necessario, conoscere la qualità, la materia di cui sono fatti gli oggetti necessari. Povertà vuol dire rifiutarsi di comprare robaccia, imbrogli, roba che non dura niente e non deve durare niente in omaggio alla sciocca legge della moda e del ricambio dei consumi per mantenere o aumentare la produzione.
Povertà è assaporare (non semplicemente ingurgitare in modo nevroticamente obbediente) un cibo: il pane, l’olio, il pomodoro, la pasta, il vino, che sono i prodotti del nostro paese; imparando a conoscere questi prodotti si impara anche a distinguere gli imbrogli e a protestare, a rifiutare. Povertà significa, insomma, educazione elementare delle cose che ci sono utili e anche dilettevoli alla vita. Moltissime persone non sanno più distinguere la lana dal nylon, il lino dal cotone, il vitello dal manzo, un cretino da un intelligente, un simpatico da un antipatico perché la nostra sola cultura è l’uniformità piatta e fantomatica dei volti e delle voci e del linguaggio televisivi. Tutto il nostro paese, che fu agricolo e artigiano (cioè colto), non sa più distinguere nulla, non ha educazione elementare delle cose perché non ha più povertà.
Il nostro paese compra e basta. Si fida in modo idiota di Carosello (vedi Carosello e poi vai a letto, è la nostra preghiera serale) e non dei propri occhi, della propria mente, del proprio palato, delle proprie mani e del proprio denaro. Il nostra paese è un solo grande mercato di nevrotici tutti uguali, poveri e ricchi, che comprano, comprano, senza conoscere nulla, e poi buttano via e poi ricomprano. Il denaro non è più uno strumento economico, necessario a comprare o a vendere cose utili alla vita, uno strumento da usare con parsimonia e avarizia. No, è qualcosa di astratto e di religioso al tempo stesso, un fine, una investitura, come dire: ho denaro, per comprare roba, come sono bravo, come è riuscita la mia vita, questo denaro deve aumentare, deve cascare dal cielo o dalle banche che fino a ieri lo prestavano in un vortice di mutui (un tempo chiamati debiti) che danno l’illusione della ricchezza e invece sono schiavitù. Il nostro paese è pieno di gente tutta contenta di contrarre debiti perché la lira si svaluta e dunque i debiti costeranno meno col passare degli anni.
Il nostro paese è un’enorme bottega di stracci non necessari (perché sono stracci che vanno di moda), costosissimi e obbligatori. Si mettano bene in testa gli obiettori di sinistra e di destra, gli “etichettati” che etichettano, e che mi scrivono in termini linguistici assolutamente identici, che lo stesso vale per le ideologie. Mai si è avuto tanto spreco di questa parola, ridotta per mancanza di azione ideologica non soltanto a pura fonia, a flatus vocis ma, anche quella, a oggetto di consumo superfluo.
I giovani “comprano” ideologia al mercato degli stracci ideologici così come comprano blue jeans al mercato degli stracci sociologici (cioè per obbligo, per dittatura sociale). I ragazzi non conoscono più niente, non conoscono la qualità delle cose necessarie alla vita perché i loro padri l’hanno voluta disprezzare nell’euforia del benessere. I ragazzi sanno che a una certa età (la loro) esistono obblighi sociali e ideologici a cui, naturalmente, è obbligo obbedire, non importa quale sia la loro “qualità”, la loro necessità reale, importa la loro diffusione. Ha ragione Pasolini quando parla di nuovo fascismo senza storia. Esiste, nel nauseante mercato del superfluo, anche lo snobismo ideologico e politico (c’è di tutto, vedi l’estremismo) che viene servito e pubblicizzato come l’élite, come la differenza e differenziazione dal mercato ideologico di massa rappresentato dai partiti tradizionali al governo e all’opposizione. L’obbligo mondano impone la boutique ideologica e politica, i gruppuscoli, queste cretinerie da Francia 1968, data di nascita del grand marché aux puces ideologico e politico di questi anni. Oggi, i più snob tra questi, sono dei criminali indifferenziati, poveri e disperati figli del consumo.
La povertà è il contrario di tutto questo: è conoscere le cose per necessità. So di cadere in eresia per la massa ovina dei consumatori di tutto dicendo che povertà è anche salute fisica ed espressione di se stessi e libertà e, in una parola, piacere estetico. Comprare un oggetto perché la qualità della sua materia, la sua forma nello spazio, ci emoziona.
Per le ideologie vale la stessa regola. Scegliere una ideologia perché è più bella (oltre che più “corretta”, come dice la linguistica del mercato degli stracci linguistici). Anzi, bella perché giusta e giusta perché conosciuta nella sua qualità reale. La divisa dell’Armata Rossa disegnata da Trotzky nel 1917, l’enorme cappotto di lana di pecora grigioverde, spesso come il feltro, con il berretto a punta e la rozza stella di panno rosso cucita a mano in fronte, non soltanto era giusta (allora) e rivoluzionaria e popolare, era anche bella come non lo è stata nessuna divisa militare sovietica. Perché era povera e necessaria. La povertà, infine, si cominci a impararlo, è un segno distintivo infinitamente più ricco, oggi, della ricchezza. Ma non mettiamola sul mercato anche quella, come i blue jeans con le pezze sul sedere che costano un sacco di soldi. Teniamola come un bene personale, una proprietà privata, appunto una ricchezza, un capitale: il solo capitale nazionale che ormai, ne sono profondamente convinto, salverà il nostro paese.
Foto quercia

La quercia che c’è dietro casa, quando fa freddo.

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9 risposte a “Il rimedio è la povertà

  1. Povertà è parola ideologicamente connotata, logorata, abusata dal Cattolicesimo, denigrata dal materialismo. Io preferisco “sobrietà”. Essa può infatti essere anche “prospera” (non necessariamente “opulenta”) senza che questo crei esattamente un ossimoro

    • Condivido, Marco. Si tratta di un articolo che ha più di quarant’anni e il concetto di sobrietà non era forse all’epoca così parlante e a portata di mano come lo è invece oggi. Ciao, grazie.

  2. Condivisibile al cento per cento…tranne che per la parola “povertà”: non l’accetto proprio! Mi fa star male!
    Qui si sta parlando di “essenzialità” non di “povertà”…
    A me ciò appare costruttivamente diverso, poiché nell’uso delle parole è implicito un giudizio, un’indicazione di valore.
    E la “povertà” contrapposta al “consumismo” non la trovo assolutamente corretta. Occorre una “sovranità personale” (vedi Italo Cillo) non povertà, per “accontentarsi” (in senso positivo, vedi Igor Sibaldi) di ciò che si ha (= ciò che si è) e per considerare l’essenzialità della vita… La povertà in senso stretto – sempre a mio parere – è quanto “il sistema” sta cercando di farci passare come sbocco possibile, per consolidare l’attuale stato di schiavitù… ricordando che esso, sistema, è comunque, come sempre, una proiezione di me. (vedi Salvatore Brizzi).
    Un abbraccio! Luciano
    PS con i pesanti “vedi” desidero riconoscere la paternità di concetti che sto facendo miei, ma che miei non sono.

    • Ciao Luciano, concordo con te sulla pertinenza in questo caso del termine “povertà”. Credo che l’autore volesse in qualche modo “disturbare” il sonno dei dormienti, provocandoli un po’. Tant’è che, proprio all’inizio, specifica cosa intenda con questo termine:

      Povertà non è miseria, come credono i miei obiettori di sinistra. Povertà non è “comunismo”, come credono i miei rozzi obiettori di destra.
      Povertà è una ideologia, politica ed economica. Povertà è godere di beni minimi e necessari, quali il cibo necessario e non superfluo, il vestiario necessario, la casa necessaria e non superflua.

      Per Parise, la “povertà” è ciò che per me (e immagino per te, se frequenti questo spazio) è il “vivere basso”. Accontentarsi cioè della sufficienza, dell’essenzialità, di tutto ciò insomma che, proprio perché in un qualche modo “confinato”, ci consente di coltivare ed esprimere al meglio la nostra pienezza. Ciao.

  3. mi ricollego a quello che dice claudia: “un guadagno giusto ed equilibrato no?”. effettivamente non esiste più nonostante la costituzione italiana lo preveda che, ormai sappiamo, è diventata carta straccia!! a differenza di claudia non ho un’attività, sono un dipendente, ma comunque le salassate me le trovo tutte in busta! proprio il mese scorso leggevo “totale lordo 1600, netto 735”. non svengo nemmeno più ma ogni mese mi trattengono roba nuova (nonostante il succulente bonus renzi di 80 euro…ahah). notare anche che lavoro nel finanziario, quindi sono costretto a vendere aria fritta ai “fessi” con rimorsi di coscienza non indifferenti, ma momentaneamente non sono ancora in grado di svincolarmi da tutto ciò anche se ci sto lavorando su parecchio. rimanendo sul tema “povertà”, ho la fortuna di avere una casa di proprietà (ereditata, se no col cavolo che me la potevo comprare) ma non mi sento di essere ricco come qualcuno vorrebbe far sentirmi, visto che la devo mantenere con tutti i costi che ne comporta, oltre alle spese ordinarie. prendo 735 euro al mese, si. ce la faccio? devo farcela per forza. e tutti mi domandano “ma come vivi?” benissimo. via tutto il superfluo: niente finanziamenti in primis, niente cellulari da 1000 euro pagabili in comode rate da 30 euro in 3 anni, niente scorte alimentari come se dovesse scoppiare una guerra (se ho fame vado a prendere il necessario, se non ne ho, salto), niente uscite compulsive forzate nel locale x se no non sono al passo con i tempi o sono asociale, niente vacanze da migliaia di euro nel periodo di pascolo umano quando la transumanza dalla città alla località di villeggiatura è imbarazzante. ci sono persone che mi accusano di rinunciare a vivere solo perché non seguo la massa. questo mi fa morire dal ridere perché rinunciare a qualcosa comporta sentirne la mancanza e proprio non la sento, semplicemente perché vivo la vita secondo le mie esigenze reali, non quelle probabili. vero anche che possiedo una macchina ma la uso lo stretto necessario. se posso andare a piedi o usare la bici meglio. vero anche che non mi riverso a ingozzarmi di cibo nei famosi capannoni che possono contenere centinaia di persone che sembra non mangino da giorni, comprare indumenti a due lire per buttarli dopo il primo lavaggio. essere appunto consapevoli di quanto si guadagna e di come si può spendere al meglio per le proprie esigenze reali è fondamentale. quindi posso dire di essere povero perché non seguo la mandria, perché mi produco pane, pasta e biscotti, perché non seguo tutte le mode del momento? e allora si ne sono orgolioso! però allo stesso tempo non voglio pensare di essere ricco perché possiedo un’auto e una casa, visto che quel poco che ho me lo voglio tenere stretto, ma allo stesso tempo non ambisco ad avere sempre di più perché per me è sufficiente. una volta saliti sulla cima della montagna si può solo scendere e ci accorge sempre tardi che a valle c’è sempre il clima migliore!

    Luk

    • Fantastico, Luk. Le tue sono considerazioni da incorniciare. Mi sono permesso di evidenziare un passaggio (fra i tantissimi) che ritengo molto significativo. Come dice Mujica, i veri poveri sono quelli che hanno bisogno di tutto.
      Questa te la ricorderai…:

  4. ciao andrea,volevo farti partecipe di qualche mia considerazione…. come sai ho avviato da poco un’attività ricettiva in un piccolo borgo dell’estremo ponente ligure.mi sto scontrato duramente con l’enorme difficoltà di mettere in pratica il vivere basso, non tanto nella mia vita privata quanto piuttosto nella gestione dell’attività. perchè?intanto per sostenere tutte le spese che ci impongono per essere “in regola” DEVI necessariamente fare soldi, guadagnare. e per farlo devi soddisfare le richieste dei clienti che non tutti condividono le tue impostazioni filosofiche e lavorative quindi? compromesso. vabbè,in secondo luogo io non ho particolare capacità manuali per fare da me ma questo si potrebbe risolvere. è che per iniziare a vivere secondo decrescita oltre a togliere devi modificare e per modificare devi spendere. e se invece non puoi perchè non guadagni e quindi non girano soldi e quelli che girano ti servono per l’attività per mantenere le spese tipo luce, tasse, corsi demenziali che SEI OBBLIGATO A FARE PENA SANZIONI e che nessuno ti regala—- che si fa?insomma cozzo con il mare del tra il dire e il fare…. e credimi la frustazione che vivo è molto alta.cosa/dove sbaglio? si posso rinunciare alla macchina ma non mi sento di fare otto km in salita in bici magari due volte al giorno e con la spesa o la borsa del bucato da lavare/stirare…. specie dopo aver lavorato magari 14 ore (d’estate).non posso neanche fare un prezzo troppo politico per attirare gente perchè la gente  non si muove ugualmente  e noi non riusciamo a pagare le spese ne a sopravvivere e poi che senso ha lavorare senza avere un guadagno giusto equilibrato? perchè farlo se poi sono comunque senza soldi e senza soddisfazione? forse non sono pronta a virare di 360 gradi in ogni aspetto della mia vita perchè potrei farmi l’orto, per esempio, ma poi un pò di sano far niente no?ciao claudia

    • Ciao Claudia, grazie delle considerazioni. Innanzitutto, proprio perché non lo fai tu (cosa che apprezzo moltissimo), ci penso io a indicare ai lettori che la tua è la Ecolocanda “Al Borgo”, a Vallebona in Liguria.
      Nel merito, posso dirti cose che probabilmente già sai o stai imparando giorno dopo giorno: all’inizio è inevitabilmente dura. Ogni cambio radicale di prospettiva che comprenda l’avvio di un progetto importante comporta – se si è costretti a sopportare un rischio d’impresa (cioè: se non ci finanzia qualcun altro) – sacrifici, delusioni, investimenti a fondo perduto, ripensamenti. Succede regolarmente anche a me, che come sai ho intrapreso la strada della divulgazione: ci sono intere settimane in cui non mi chiama nessuno e sembra che tutto debba finire lì, poi magicamente arriva una telefonata, un paio di mail e… incredibilmente tutto riparte, più solare e incoraggiante di prima!
      Credo che tutto dipenda da quanta strada (o quanto tempo) ci separa dall’orizzonte che ci siamo disegnati nella nostra testa. Un chilometro? Un mese? Cento chilometri? Un bimestre? Mille chilometri? Un anno? Sono valutazioni che riguardano ciascuno di noi e che vanno ponderate con la nostra determinazione e, soprattutto, con la pervasività dei nostri sogni.
      Come dico sempre, vivere basso richiede un pensiero alto anche e soprattutto nella fase preliminare al cambiamento. Capace di soppesare, calcolare, valutare, decidere. Anche di distinguere cosa è povertà, cosa è miseria e cosa sobrietà (per stare in tema all’articolo). Poi ci sono naturalmente variabili che esulano dalla nostra capacità di previsione. Ma queste, se negative, non fanno altro che mettere alla prova la nostra spina dorsale. Se positive, invece (perché esistono anche quelle!), vanno accolte a braccia aperte. In bocca al lupo!

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