Mi chiedo quante persone, tra noi, almeno una volta nella loro vita, si siano lasciate cullare dolcemente dall’idea di una morte pietosa e caritatevole, salvatrice gentile e risolutrice di un dolore profondo e devastante che non siamo riusciti fino a quel momento a superare. E’ come quando il nostro sconforto arriva puntuale ad ogni nostro risveglio, giusto qualche istante di calma ad incontrare la luce per poi ripossederci tagliente e istantaneo come il colpo di una lama cui non possiamo sfuggire.
Quel giusto per farci sentire che siamo stati capaci per qualche attimo di liberarci di lui. Ma la pena che sentiamo è radicata, forte, metallica e fredda come gli anelli opachi della catena più pesante che possiamo immaginare. Quanti di noi hanno aspettato, in quei momenti di penombra che il buio si prendesse tutto, che avessimo diritto alla clemenza delle leggi di una natura sorda. Quanti di noi hanno implorato il loro Dio indifferente, quanti hanno sperato che la furia di quel dolore trovasse un’uscita, una qualunque, quando era impossibile mettere un piede davanti all’altro o l’aria sembrava non arrivare più ai polmoni. O quando ogni cosa che facevamo perdeva di colpo il suo senso. Quanti di noi si sono rifugiati nel Sonno, aspettandolo ogni sera. Perché non è molto dissimile dalla morte. Senza chiederci niente in cambio, però. Né coraggio, né rinunce, né scelte. Solo una tregua.
Molti sanno come si sta quando si sta così. E devono ringraziare la loro mancanza di coraggio che mille volte hanno maledetto, il loro istinto, i loro legami e legacci familiari, l’insopportabile consapevolezza di fare male a qualcuno, se non hanno ceduto.
Ci sono cose peggiori della morte. Il dolore deve essere conosciuto profondamente per poter essere in diritto di parlarne ed è difficilissimo prendere una posizione sulle recenti discussioni sull’eutanasia che hanno avuto luogo in Olanda, paese molto avanti da questo punto di vista e che già dal 2002 ha una legge per regolare la scelta di mettere fine alla propria vita. Credo che ad ogni persona dovrebbe essere data la possibilità di scegliere se si trova in condizioni non più accettabili o sostenibili per la sua forza o la sua sensibilità. Tutti possono capire che quello che dice quella legge è giusto, sacrosanto, un passo avanti per l’umanità: la libertà di decidere per se stessi.
Ed è tutto giusto anche nell’eventuale, possibile prospettiva futura di allargare forse questa possibilità di scelta anche a chi non è un malato terminale: perché anche il dolore psicologico può risultare intollerabile, incurabile, senza speranza, devastante, pericoloso perfino. Non solo il dolore fisico o psicologico derivante dalla malattia ma anche quello di ogni giorno, quello che non è abbastanza per morire fuori ma che ci ha già ucciso dentro e non vogliamo altro che si finisca il lavoro. In un modo o nell’altro.
Ma.
Che significa esattamente “la libertà di decidere per se stessi?”. Sarebbe perfettamente giusto se nel momento in cui siamo liberi di decidere di morire noi conservassimo tutte le altre libertà, tutti i nostri diritti e tutte le alternative fossero sul piatto, davanti a noi. Sarei perfettamente d’accordo e senza alcuna riserva se una persona continuasse a desiderare di morire se fosse circondata di affetto, di supporto, di aiuto, di compagnia e amore, se avesse tutto il necessario per vivere, se fosse perfettamente lucida e consapevole ma decidesse altrimenti perché non interessata all’esperienza della vita. Chi può permettersi di condannare una scelta del genere fatta in libertà? Ma se la concessione di una libertà di scelta venisse data, invece, a persone che libere non sono affatto? La società che abbiamo costruito non ci rende affatto persone libere. Perché senza amore, senza sostegno, senza ascolto e supporto, senza comunità, purtroppo, non siamo liberi ma prigionieri del nostro dolore che a quel punto diventa l’unica presenza e l’unico consigliere. Quanti dei nostri dolori insostenibili non esisterebbero se vivessimo in un mondo diverso, in cui il mutuo aiuto e l’attenzione reciproca fossero valori universalmente diffusi?
Quando la possibilità di abortire legalmente è diventata una realtà per molte donne in molti paesi, la si è sancita come una libertà sacrosanta. Una libertà delle donne che potevano decidere di se stesse. Finalmente. Ma, mi chiedo, quante donne che decidono o che hanno deciso di abortire erano o sono libere di decidere? In quanti casi invece quella libertà è stata l’avallo e il sigillo di legittimazione della loro solitudine, dell’abbandono e dell’esclusione, del disinteresse di una società intera totalmente indifferente alle leggi sacre della natura? Quante donne, nelle condizioni di poter crescere il loro bambino senza problemi, rivendicherebbero o avrebbero rivendicato quella libertà per se stesse? Molte meno e forse nessuna. Non lo sappiamo, ma forse è così.
Il diritto alla libertà di mettere fine alla propria vita quando la si ritiene insostenibile per una serie di ragioni dovrebbe essere assicurato a tutti. A tutte le persone libere in una società che contemporaneamente ascolta, include e fa attenzione ad ogni suo componente costruendo alternative possibili.
La morte è dolce, sì, giusta, necessaria e liberatrice. Quando siamo, noi, liberi davvero di decidere e non quando siamo lasciati da soli, non quando ci sentiamo inutili, persi, abbandonati. Invece di pensare di allargare il diritto alla morte, dovremmo forse pensare a moltiplicare e testimoniare la vita, quella fatta di relazioni basate sul volersi bene, pur con tutte le difficoltà che ci sono, quella basata sul sostegno e l’attenzione all’altro, alle sue necessità e alla sua sensibilità. Perché è quello di cui abbiamo bisogno anche noi.
Pensare che ciascuno abbia diritto di mettere fine alla propria vita pur non essendo un malato terminale significa arrendersi al mondo che abbiamo costruito: indifferente, veloce, disattento, superficiale, privo di empatia. Chi non si adatta può scegliere la morte. In fondo ne ha diritto.
Costruire invece un mondo diverso è possibile: quello che siamo noi ogni giorno con gli altri, l’attenzione che dedichiamo al nostro vicino, al nostro amico che ha bisogno di noi, a quello che non abbiamo tempo per vedere, alle parole che non usiamo mai per diffidenza, vergogna o per quella riservatezza che in fondo ci nuoce e nient’altro.
Lasciamo la buona morte come alternativa giusta e sacrosanta a una vita che non è più degna di essere vissuta ed ogni strada per restituirle quella dignità è stata tentata. Ma diamoci, prima della sicurezza di una buona morte, la possibilità di una buona vita.