Effebbì

Ci sono da poco.

E’ un po’ come dire che esisti, no? Alla fine capitoli, ti arrendi e ti ci butti dentro. Perché lo fanno tutti, magari ci sono informazioni interessanti. Ha anche un senso di utilità per quella cosa di cui ti occupi, per quella causa in cui credi, per quell’attività che ti piace… Le informazioni girano, le immagini arrivano e poi non ti rimane che spingerle in basso, già vecchie, già viste neanche le hai lette. E da sopra ce ne sono altre che premono, di continuo. Come  la carne dentro il tritatutto. Tutto travolge tutto. Come alla cassa del supermercato quando mi fermo a pensare quanta ce n’è, di roba che si disperde nell’ambiente solo in quel minuto in cui guardo io, in cui sono lì. Moltiplico per le 24 ore, poi per il mondo intero e ho un senso di nausea, come un girare di testa, come un peso addosso da cui non puoi liberarti. Come iniziare a girare su se stessi. Senza potersi fermare.

Tutto buttato lì. Senza riguardo per nessuno. Milioni di tonnellate di felicità lasciate nelle discariche dei nostri schermi scorrevoli. Dio, quanto è pericolosa la felicità degli altri. Persino quella solo esibita, che magari neanche c’è per davvero. Ma anche solo la sua immagine sbiadita ti si sfodera così all’improvviso e arriva a segno, quasi conoscesse già la traiettoria precisa. Così, senza pudore, senza attenzione. Con neanche un cartello che ti dica: prima di guardare questo video proteggiti bene, che magari poi ti toglie i pensieri, ti riporta indietro di mille anni, ti lascia esangue nei tuoi “se” e nei tuoi “perché”.

Così divento la madre che non è mai stata guardando “una gravidanza in un minuto”. Una bella ragazza registra un video di tutti i nove mesi. Sorriso smagliante, pancione nudo. In un solo minuto. Tutto di fretta. Così bello. C’è anche il bambino. Alla fine. Che facile che è. Che bello che è. Ma io non riesco a pensare alla più bella delle esperienze della mia vita. Non mi sento minimamente in sintonia con quella madre. Non so perché. Io mi sento la madre che non è mai stata a guardare quel video. Mi fa male come se avessi perso mille bambini, come se avessi aspettato quella pancia che non è mai cresciuta, come se il mio ventre fosse rimasto ad aspettare un pieno di vita nella desolazione più totale. Io sono la madre che è rimasta dentro, come inesplosa, pericolosa di dolore, come in un freezing di pre-vita. Come in un’attesa consumata, finita. Mi raggelo negli “ormai” di una donna che non “è stata brava” come le altre, che “non ce l’ha fatta”, lei, a fare quello che doveva fare.

Come se contrarre il tempo reprimesse l’energia creatrice quanto devastante delle emozioni. Quelle che ti lasciano viva, sì. Certo.

Non posso riconoscere un amore sfrontato, un abbraccio offerto come perle inutili ai porci, un bacio, un sorriso, un minimo sguardo alzato. Perché a guardare divento la donna dal cuore inutile, gonfio di aria e plastica come lo spago di un pallone a segnare i miei polsi di bambina. Come se mai fossi stata amata, come se un abbraccio non mi avesse mai scaldato, come se la vita mi avesse tradito.

Un lavoro, un ruolo, un obiettivo raggiunto. Poi condiviso. Con tutti. Col mondo intero. Ma oggi sono quella che sente il fallimento della sua vita, che con un’immagine è capace di costruire castelli in cui chiudersi a chiave per sempre o palazzi alti come torri da cui immaginare in santa pace di far finire tutto in un battito d’ali.

Poi i viaggi, gli incontri, gli affetti, gli amori, gli oggetti. Tutto sul rullo scorrevole delle casse del supermercato. A velocità supersonica. Ciò che è posseduto, ciò che è fatto, concluso, fruito, ha il solo senso di colpire. Come un’arma. Anche quella a difesa. Io ce l’ho. Ed è lì, in quello spazio, che ti senti sicura. Perché anche tu, mostrando, ti stai difendendo, come in attesa di un attacco vicino da venire, aspettato, preparato. E non fa lo stesso effetto della vita. Perché nella vita esisti a prescindere, perché respiri, perché tocchi, perché hai il tempo di riorganizzare la tua struttura, di rimettere insieme i pezzi, di cercare o di rassegnarti a quelli mancanti. Di accusare i colpi. Perché ti giri e c’è altro. Perché ti giri e, forse, c’è altro. Perché ti giri, forse. E  c’è altro. Forse.

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