Sono a un incrocio. Sono arrivata presto per l’appuntamento. Come sempre. Parcheggio facile stamattina. Strano. Così prendo i miei libri, il mio telefono e il mio computer e la macchina diventa il mio studio ufficio. Perché a Roma è così: devi imparare a resuscitare i tuoi tempi morti. Morti ammazzati dalla città che te ne restituisce brandelli, briciole umide e sporche che, se vuoi, per carità, te le puoi raccogliere. Mica qualcuno te lo impedisce.
Un’oretta, un’oretta e mezza. Scrivo, telefono, mando mail, correggo, leggo e rileggo mentre dal parabrezza entra un sole invernale recintato dai terrazzi dei palazzi altissimi, dietro le grate delle antenne, filtrato dalle macchine e dai pali della luce. E sono proprio in quella prospettiva. Che fortuna. Tutto il resto è ombra.
Apro i finestrini. Fa caldo anche se siamo a dicembre. Una donna controlla whatsapp mentre attraversa sulle strisce con il manico della carrozzina ben stretto nella mano. Non guarda la carrozzina né dove cammina né se, per caso, una macchina arriva.
Una signora bionda genere anni ottanta col suo barboncino bianco incappottato è nel pieno di una conversazione lamentevole. Sento tutto perché al telefono perdiamo coscienza dei volumi intorno a noi. Salutami Domenico e… pensateci, pensateci tanto. Il barboncino dovrebbe fare pipì ma non ci riesce neppure in volata, saltellando, seguendo i ritmi delle parole della sua padrona. Una voce di quelle consapevoli, ben impostate, forse un’attrice che non è mai nata. Una pensione tranquilla, una casa di proprietà ereditata, la mamma anziana a casa con la badante e una donna di servizio che le sputa nel ragù.
Passa Maria o Claudia o Katerina che sostiene a braccetto un anziano signore malato di Parkinson o forse gli esiti di un ictus che lo fanno tremare da una metà mentre lo paralizzano quasi dall’altra parte del corpo. Il visconte dimezzato ascolta Maria o Claudia o Katerina che guarda in un punto lontano, oltre l’orizzonte grigiastro dei marciapiedi e, l’orecchio attaccato allo smartphone, parla come un fiume in piena in una lingua sconosciuta, senza accorgersi del suo lavoro che è lì proprio a mezzo braccetto con lei, con la mano buona a contar pillole e con l’altra rassegnata, ormai abbandonata da un pezzo lungo il fianco del suo corpo accartocciato. Mi giro per non perdere il visconte. Lo avrei voluto fermo, pedante, risoluto e pieno di rabbia della sua condizione. Avrei voluto trovare, vedendolo da dietro, non so, un qualche segno del suo orgoglio o della sua cattiveria. Lo guardo allontanarsi a passi strascicati e veloci, i capelli con la forma del cuscino stampigliata a fuoco.
Un uomo e una donna sono sposati da venti o venticinque anni. Non posso vederli in viso. Ognuno è chino sul suo schermo e imboccano il mio marciapiede. Dal finestrino li seguo, poi li inseguo con lo specchietto retrovisore. Si intuiscono uno vicino all’altro ma non si ascoltano da anni. Gli basta l’eco delle loro presenze, dei loro corpi appesantiti, degli spostamenti d’aria delle porte che si chiudono una dopo l’altra, senza quasi far rumore, giorno dopo giorno. Gli basta il rito quotidiano dei caffè, dei pranzi e delle cene messe insieme. Non si parla d’altro. Ciascuno ignorante del suo vecchio amore e a cercarne di nuovi per dimenticare. Ciascuno l’insostituibile sottofondo della vita dell’altro.
Due ragazzi sui vent’anni camminano per parlarsi. Senza telefono in mano, loro. Non lavorano. Sono tranquilli. Vanno piano. Poche parole che non riesco a sentire. Poi si fermano all’angolo prima di separarsi. Oh, pensiamoci, dice uno. Io non so più niente, dice l’altro. So solo che tutto questo non ha senso. Ti chiamo più tardi che poi c’era anche un’altra idea…