In molte contrade dello spirito noi siamo stati di casa, o per lo meno degli ospiti. (Friedrich Nietzsche)
Noi continueremo ad essere populisti, certo. Saremo orgogliosamente populisti per il New York Times, per il Financial Times, per la Commissione Europea, per il Fondo Monetario Internazionale, per la BCE, per il 99% della stampa generalista, per le mandrie di “intellettuali” assertivi e asserviti, per i pavidi alfieri del tengo famiglia, per i pifferai della crescita, per quelli del Pil e per gli apologeti del Profitto. In una parola, per tutti gli schiavi ideologici del Novecento.
Continueremo ad essere populisti illuminati e visionari che, con buona pace dell’imbalsamata intellighenzia che fu una volta di sinistra, si dedicano a una lungimirante e radicale riconcettualizzazione del culto platonico della democrazia. Un culto che, strutturalmente terrorizzato dal popolo (perché ritenuto incapace di autodeterminarsi), rese di fatto necessaria la rassicurante intermediazione dei cosiddetti (sigh) esperti. Saremo populisti che, nonostante quelle mandrie di schiavi continuino pubblicamente a ignorarci (ma, segretamente, a studiarci), hanno probabilmente aperto più libri di loro e, più di loro, hanno frequentato e conosciuto il mondo, forgiando così nelle loro teste e nei loro cuori una diversa idea di avvenire: un’idea che in ogni settore si emancipi virtuosamente dai precedenti, polverosi schemi interpretativi del reale, fecondamente ispirata dall’intuizione di una società basata sulla cooperazione anziché sulla competizione, sui bisogni anziché sui fabbisogni, sulla sobrietà anziché sulla dismisura, sulla sufficienza anziché sull’efficienza, sulla relazione anziché sul denaro, sull’equità anziché sul primato dei pochi, sull’equilibrio anziché sulla crescita.
La parola d’ordine di questo secolo sarà infatti un piccolo e innocuo prefisso: DE. Una ad una, le principali tendenze del secolo scorso vengono oggi infatti smantellate da questo minuscolo prefisso. Fenomeni come deflazione, deregolamentazione, delocalizzazione, dematerializzazione, descolarizzazione, per concludere naturalmente con l’odiatissima decrescita, ce lo annunciano senza mezzi termini: fatalmente disilluse dall’inapplicabilità di quelle premesse e promesse, le popolazioni stanno rapidamente decostruendo – consapevolmente o meno – quel delirante palinsesto di consuetudini, conoscenze e “valori” che, innalzato e celebrato negli ultimi due secoli in tutto l’occidente, ha prima illuso e poi afflitto l’homo oeconomicus. E’ sempre accaduto e, anche se il nostro sterile provincialismo ci impedisce spesso di capirlo, sempre accadrà: la storia procede a cicli.
Grazie anche alla Crisi, il ciclo al tramonto – che per convenzione semantica chiamiamo capitalismo – sta fortunatamente sviluppando il proprio sistema immunitario, producendo gli anticorpi necessari a impedire l’implosione dell’organismo ospitante, cioè il nostro pianeta. Il capitalismo si fonda sull’innaturale presupposto di una crescita infinita al prezzo (insostenibile) dell’indiscriminato logoramento delle risorse disponibili: materiali, energetiche ed umane. Oggi quelle risorse stanno reagendo. Ma non si banalizzi: la risposta non è certo stata il referendum di domenica (solo una spia accesa sul cruscotto del manovratore), così come non è stata l’elezione di Trump o la Brexit, tutti comodi spauracchi che il pressapochismo culturale di cui sopra agita, solo per negare a se stesso il problema.
Per qualche recidivo positivista la soluzione non potrà che provenire dalla tecnologia. Ma, proprio come Raimon Panikkar, ritengo che la tecnologia sia soltanto il cavallo di Troia per l’occidentalizzazione del mondo. La tecnologia, esattamente come la Crisi, non farà quindi che accelerare il processo autodissolutivo. Solo per questo, in fin dei conti, conviene assecondarla.