Un qualsiasi martedì mattina, in centro con mia figlia. I look imposti da imperativi distanti. Gli sguardi ammiccanti al Vuoto con cui andiamo a braccetto. Le vite non nostre, che indossiamo in un valzer di compassionevole fierezza e orgogliosa apprensione. L’incrocio (senza precedenza) con gli occhi di un facchino, probabilmente arrivato in gommone da poco: l’auricolare innestato nell’orecchio.
Mi siedo alla luce della torre campanaria della mia città. Il libro che ho con me non lo leggo, oggi. Mia figlia dorme. Sfoglio le pagine dei passanti: oggi mi raccontano molto di più loro.
Le pellicce che pascolano i cani sui prati che i loro cacciatori hanno cementificato. Il viavai di giovani universitarie dai negozi di moda lowcost. Le parigine inutilmente argentate di una commessa che rifà la vetrina di una boutique. Le torte sovrasaturate di un vecchio artigiano dolciario che ha però deciso, i prezzi, quelli… di innovarli. Le note del violino di un Artista sconosciuto che galleggiano nell’aria fresca e secca. Rivendico il diritto di perdere tempo, osservando, scrutando, trascrivendo.
Chiudo il libro, pensando a quello che sarebbe potuto essere. E che, per fortuna, non è.