Vivere “low” non è uno slogan.
Vivere “low” è, per chi già non lo fa e non è abituato, un’impresa folle. Ai limiti del possibile. Scrollarsi di dosso le aspettative che ti sono state appiccicate negli anni come una montagna di chewing-gum è una scelta estrema, non da tutti.
Come ho detto un sacco di volte, l’obiettivo di LLHT non è quello di fornire una panoramica su cause e conseguenze di alcune mie personalissime scelte: di LLHT io sono infatti il soggetto, non l’oggetto. Tanto per dissipare dubbi ed evitare pressapochistiche deduzioni, ricordo ai molti frequentatori di questo blog che non mi conoscono (e che sono fortunatamente la maggior parte), che non sto approcciandomi a questi temi, banalmente, da quando è scoppiata la crisi. E’ vero: ho promesso – ma non mantenuto – che avrei esposto le motivazioni sottostanti ad alcune mie scelte che non esito a definire… inusuali. Poi, come dicevo, ho preferito sorvolare su questi aspetti personali, dirottando il messaggio del blog su argomentazioni che ritengo siano d’interesse più vasto e, se non condivisibili, almeno… condivise.
Questo, fondamentalmente per tre ragioni:
- innanzitutto, per tentare di nobilitare, qualificandolo, il “contenitore” (Cosa vuoi che gliene freghi, alla gente, dell’ennesima testimonianza di un aspirante downshifter?, mi son detto), riempiendolo cioè di contenuti che – belli o brutti che siano – hanno comunque il pregio di non poter essere facilmente letti altrove, trattandosi perlopiù di riferimenti economici e sociologici, due discipline che amo e sulle quali ho investito negli anni energie, tempo e risorse.
- secondariamente, per offrire uno spazio di approfondimento al maggior numero possibile di persone che, per necessità o semplice curiosità, si stanno confrontando su questi temi non solo da un punto di vista emotivo, ma anche e soprattutto razionale;
- infine, per ragioni opportunistiche, ritenendo poco conveniente effettuare una certa disclosure sul sottoscritto, fattore questo di oggettiva minaccia per la mia vita privata, soprattutto in un mondo del lavoro, come quello odierno, dove è assai più facile valutare gli altri non per il valore aggiunto che sanno apportare, ma per le idee che esprimono.
Bene, ne approfitto allora per ricordare a tutti i lettori che ripongono una qualche fiducia nelle tesi di LLHT, quanto l’adozione di princìpi ispirati e destinati ad una vita “low” costituisca una fatica che non è riduttivo definire titanica. Sicuramente non alla portata di tutti. Tutto dipende da due cose soltanto: quanto si hanno le spalle coperte (o, in termini imprenditoriali, dal rischio d’impresa) e quanto ci si crede (o, in altri termini, da quanto alto è stimato il premio per il rischio). Mi fa sorridere chi dice di voler “decrescere”, possedendo magari qualche appartamento concesso in affitto o altre forme di rendita. Certo, l’intenzione è comunque nobile, ci mancherebbe! Ma in quel caso, il rischio d’impresa scende praticamente a zero. E, se il fine resta comunque nobile, i mezzi meritano come minimo un po’ meno… attenzione.
Credo sia “Mi fido di te” la canzone di Jovanotti in cui c’è una strofa che recita: Cosa sei disposto a perdere?
Cosa ci spinge a rischiare? E in nome di che cosa, soprattutto? E’ una questione di nausea e frustrazione? Forse. E’ una questione di ideali e vocazioni umanitarie? Forse. E’ una questione di sfida con se stessi e di insoddisfazione? Forse. E’ una questione di salvaguardia della propria salute? Forse. E’ una questione di (ri)conquista della propria vita, di emanciparla cioè da decisioni altrui per ricondurla soltanto alla nostra sfera di influenza diretta? Forse. O magari… tutte le cose insieme. O magari altre ancora. Ognuno ha le sue. Anche per questo, non parlo di me.
Sto facendo un tentativo: da una settimana, ho chiuso il cellulare in un cassetto. Sempre la solita manfrina, lo so: esercizio di autorinuncia…! Mi risulta ci sia un esperimento, proposto da una qualche tv americana, in cui a un gruppo di giovani è stata somministrata la stessa “terapia”: pare che molti di loro cadano frequentemente in depressione o siano vittime di crisi epilettiche. A me non sta accadendo nulla di tutto ciò. Devo essere malato…! 😉
Non basta “non accendere quasi mai la tv”, per fare un esempio. Non è sufficiente. Occorre eliminarla. Completamente. E’ un discorso brutale, me ne rendo conto. Ma la rinuncia, quella vera, quella temprante, quella che diventa un modello per sé e per gli altri, passa attraverso la privazione. Senza se e senza ma. Privazione anche della sola possibilità di poterla accendere, se proprio ce la vediamo brutta. Per molti mesi l’abbiamo tenuta in casa anche noi, senza quasi mai accenderla. Però, ogni tanto… una partita con la Play-Station, perché no? E lì, allora, tutto crolla. Io non so se ho ragione o se ho torto. Sarà il tempo a dirlo. Ma so che il mio rischio d’impresa è altissimo. Così come so che il premio per il rischio è altrettanto alto. Quindi, non ho paura.
Non sono giochi, questi. Non sono esperimenti sociali. Non è la mia presunta capacità di veicolare un messaggio in bella copia e in maniera persuasiva! La crisi c’è e picchia duro. Un paio di mesi fa, l’azienda di un caro amico è saltata. Fine. Decine di dipendenti a spasso. Lui vende la casa per pagare le ultime mensilità. Quante ce ne sono, di queste storie? Quando le leggi sui giornali, scuoti la testa, pensi e rabbrividisci. Quando toccano persone a te vicine, persone che ora non hai nemmeno il coraggio di chiamare, ti viene da prendere a pugni il muro! E ti viene da pensare che anche questo cazzo di blog, in fondo, sia una solenne stronzata.
Occorre essere seri. Solo questo, è il tributo. Solo questo.
Perché, se si vuole tornare in possesso della propria vita, la risposta alla domanda di Jovanotti può essere una soltanto: più di quanto ci si immagini.
Sono d’accordo, forse rispondere alle domande che ho posto può apparire un rifugiarsi, ma non se,. dando risposte a queste domande, ne consegue uno stile di vita
Verissimo. Prima di darle, quelle risposte, occorre però trovarle (nonostante le si cerchi).
Dài, sali adesso sull’ottovolante del nuovo post (La misura dell’anima): mi servono nuove chiavi di lettura di un certo “spessore”… 😉
Ciao! Irrompo! Io non direi “cosa sono disposto a perdere” ma cosa sono disposto a prendere! Cioè rovescerei totalmente la questione. Io voglio prendere la mia libertà e creatività umiliate dal concetto consumistico di lavoro, e dall’istruzione ed educazione servette che ne sono derivate, io voglio prendere le cose meravigliosamente acquistabili senza denaro che sono l’amicizia, l’incanto, il silenzio, la bellezza dei luoghi, la profondità della conoscenza, lo stupore, i libri. Sento dire “nel sistema”, “contro il sistema”, etc… Il sistema siamo noi. Abbiamo il coraggio di cambiare noi o ricorreremo all’ennesimo psicofarmaco per non sentire il peso delle cose? Scusate ma secondo me non è il momento di essere prudenti e di pensare alla rinuncia, è il momento di pensare a prendere. Lottiamo per riuscire a lavorare 6, 5 ore invece che otto. Se non ce la faremo noi forse ce la faranno i nostri figli. In questo momento a me la parola autonomia piace e anche la parola anarchia, che non è disordine, è non riconoscere potere ad altri. Questo non perchè Bakunin, Malatesta, Kropotkin o che, ma perchè in questo momento il potere probabilmente passa molto poco attraverso i governi e molto più attraverso la mentalità comune che è stata diffusa col mercato, con l’educazione. Ecco perchè tanta paura di restare senza carta di credito, senza telefono. Io ho il cellulare, per l’uso che ne faccio mi costa 8 euro al mese. Sinceramente non spendo quasi nulla, nemmeno in vestiti. Ciò che guadagno lo considero preso in prestito dai miei figli. Ciò che mi piace veramente è quasi sempre gratis…come ho detto prima. Serve un gesto di libertà e di rottura? Il cellulare allora lo rompo col martello e sono felice, non lo metto nel cassetto.
Ciao Marco. Mi fa piacere la tua… “irruzione” (che non ho trovato affatto critica, anzi…): sollevi temi importanti e apri prospettive inusuali per LLHT, almeno fino ad ora. Uno su tutti: la fierezza. Come più volte detto, la fierezza – in alcuni casi, l’arroganza – con cui ho affrontato certe scelte appartiene a una sfera privata, che non è quindi oggetto di trattazione su queste pagine.
Credo però, in linea di massima, che il diverso approccio con cui si possono affrontare certe esperienze oscilli comunque su quella scala di “gradualità” che già Marica aveva tratteggiato: da posizioni molto riflessive e caute, come forse la mia, ad atteggiamenti più euforici ed esuberanti, come forse il tuo.
Personalmente, non ho mai avvertito istinti rivoluzionari. Ogni tanto mi lascio prendere la mano, è inevitabile. Ma sono un tipo… mansueto! 😉 Se su LLHT hai letto la parola “sistema” (o espressioni derivate), credo tu non l’abbia mai trovata all’interno di un mio intervento; o al massimo, potrei averla usata per qualificare il set di consuetudini e retaggi che avvolgono la contemporaneità, ma non certo in termini dispregiativi. Non amo infatti categorie che attribuisco più alla sfera delle ideologie, che non a quella della crescita e dello sviluppo interiori.
Come ho scritto in precedenza, credo che l’uomo, per cambiare il mondo, debba prima cambiare se stesso. E, per cambiare se stesso, deve prima prendersi attentamente le misure. Ne consegue abbastanza chiaramente, credo, che la velocità, l’intonazione e l’energia di questo processo di cambiamento dipenderà esclusivamente da fattori soggettivi (carattere, abitudini…) e oggettivi (contesto, network relazionale…).
L’esuberanza è uno dei canali del cambiamento, certo. Ma non l’unico. Proprio per questo, per qualcuno può essere salutare prendere a martellate il cellulare. Per qualcun altro, invece, è sufficiente un distacco graduale. Quanto alla tua ultima frase, infine, ti informo per correttezza che mi sono preso la licenza di eliminarla, in quanto l’ho trovata (almeno per ora) un po’ decontestualizzata. 😉 Ciao!
Io la capisco molto poco questa cosa del sacrificio, della rottura, della rinuncia a qualcosa che sentiamo necessario… Ma qual è il significato? Una cosa è rifiutare l’idea di cambiare un cellulare all’anno perché ogni anno c’è quello più figo, con più applicazioni, più veloce, più chenesoio. E un’altra è rinunciare a qualcosa che ci è necessario. Per quanto mi riguarda la carta di credito non mi era più necessaria e senza sacrificio me ne sono disfatta. Il cellulare invece mi serve. E lo uso. Non mi passa neppure per la testa di rinunciarci. Perché è importante, perché mi dà un servizio utile.
Quello a cui mi sono sottratta è quello che c’è intorno al cellulare. Il bisogno indotto che comunque ne devi cambiare a ripetizione. Per stare al passo coi tempi, perché c’è il design, perché chissà quante cose ci puoi fare. A me tutte quelle funzioni non servono. Me ne bastano due e sono felicissima così. Il resto non mi interessa.
Vale lo stesso per la tv. La accendo raramente. Ma solo perché raramente c’è qualcosa che mi interessa. Quando c’è qualcosa che mi piace, che mi interessa e voglio vederla la vedo. Sto pensando di disfarmene anche io ma solo perché vedo che la uso pochissimo. E quindi mi è poco utile. Quindi nel momento in cui me ne disferò (se lo farò effettivamente) sarà stata prima la mia necessità e il mio desiderio a venire. Non prima la rinuncia, la sofferenza della crisi di astinenza, l’espiazione e infine la “purificazione”…
Non mi interessa purificarmi se prima non è una mia sostanziale e profonda esigenza… Non ho bisogno di essere coerente con chissà quali principi della decrescita, del downshifting e dichessoaltro. Prima ci sono le mie necessità.
Ora, per un caso felice le mie necessità vanno proprio in quella direzione ma non sarei disposta mai a farlo secondo i tempi o la vita di qualcun altro. Non sono una purista, una perfezionista, né una masochista.
Voglio fare quello che mi piace. E voglio essere felice non solo all’arrivo ma in ogni attimo del cammino che ho scelto.
Capisco il tuo punto di vista, Marica. Ma il mio è un po’ diverso.
Quello che ho cercato ancora una volta di trasmettere nel post non è il piacere (che potrebbe effettivamente apparire masochistico) di rinunciare a cose ritenute importanti (o utili), bensì il piacere di scoprire che quelle cose, quando non ci sono più, in fondo non erano nè importanti, nè utili. Ne avevo parlato nel post sulla rinuncia: è una disciplina buddista chiamata “frustrazione strategica”.
Non dico che sia una pratica necessaria, ci mancherebbe! Dico solo che scoprire di avere meno dipendenze di quelle che si credeva di avere è… salutare! Anche perché potrebbe accadere, prima o poi, che quella rinuncia non debba essere frutto di una scelta propria, ma altrui. Tutto qui, ciao. 😉 Ciao
Ho capito bene lo spirito del post Andrea…ma non riesco proprio a capire il procedimento… Ma perché privarsene prima per scoprire poi che non erano utili? Non ne capisco il senso anche se è un principio buddista. Del buddismo ci sono cose sensate e altre che secondo me non lo sono. O meglio, che non mi appartengono e che non capisco.
Ci riconosco un po’ di “piacere dell’autofustigazione”, che mi ricorda molto certi principi religiosi che sembrano fatti apposta per frustrare, umiliare, colpire, mortificare…così si diventa più forti e si scoprono nuovi limiti.
Io credo molto poco a questi approcci perché sono profondamente convinta che il cambiamento autentico non passi per quella strada. Ma per la strada della scoperta non violenta, del riconoscimento di se stessi man mano che si cambia con continui e piacevoli adattamenti.
Ho la sensazione che l’autoimposizione sia quasi una strada per fare prima e che ci sia in questo un enorme rischio: quello di non riconoscersi alla fine di questo processo.
“Perché privarsene prima per scoprire poi che non erano utili?”
Semplice: perché… sospettavo che non fossero utili. Ma che fossero invece lo spauracchio di un inganno collettivo a cui, in ottemperanza a chissà quale legge, dovevo per forza inchinarmi.
Tu la definisci “fustigazione” o “autoimpisizione”. Io, più ingenuamente, la chiamo “scoperta”. Non indosso il cilicio, Marica! E non amo infliggermi dolore. (Fossero anzi questi, i dolori… ;-))
E’ invece molto semplice: il piacere di scoprire, a posteriori, che quelle cose di cui ci si è disfatti non erano utili è per me di gran lunga superiore al dispiacere (temporaneo) di aver provato a rinunciarvi.
Mi sembra un processo assolutamente “quieto” e lineare. Non ho mai avuto la pretesa, qui sopra, di fornire ricette a nessuno, ci mancherebbe! Non sono titolato a farlo e non mi interessa farlo (ricordi la mission del blog?). E’ uno spunto. Uno strumento. Un’idea. Tutto qui.
Punti di vista differenti e che, per fortuna, non devono necessariamente convergere.
Risparmia i polpastrelli per il prossimo post, dai! Che ne sta per uscire uno davvero tosto e sul quale mi interesserà molto la tua opinione! 😉
Ciao
E’ un po’ come dire: io la penso così, punto e basta. Beh certo che le opinioni non devono per forza convergere. Non ho mica mai pensato questo. Spiegavo semplicemente come penso ed è invece interessante quanto siano diversi i nostri approcci alla stessa cosa. Almeno per me.
interessante. ciao andrea.
sono tantissimi i limiti e talmente soggettivi da non esserci una risposta.
io vorrei ritirarmi nella natura ci siamo arrivati per gradi(io e mia moglie) prima un lento risveglio da quel torpore in cui siamo stati cresciuti,poi ci si scontra con alcune scelte e li si decide cosa possiamo accettare ma sopratutto cosa non possiamo proprio accettare.
quando non abbiamo accettato alcuni possibili compromessi ci siamo sentiti più in sintonia con noi stessi,ma poi il mondo che ti circonda ti dice che qualcosa puoi sceglierlo ma non esagerare,e lìbisogna prendere delle decisioni più forti più “vistose”e se manca la giusta preparazione resti in stand by,la via che non ti decidi a percorrere automaticamente si allontana da te e ad un certo punto ti ritrovi da tutt’altra parte.
oggi possediamo un rustico da eistrutturare tra le colline,abbiamo un attività in tutt’altro posto che stà rischiando una fine indecorosa,non siamo riusciti ad accantonare soldi ……..anzi……….
e pertanto pur sapendo,e oggi lucidamente direi da sempre,cosa vogliamo restiamo in”passiva accettazione di norme che minano alla nostra salute”
ricollegandomi a ciò che dici io sarei disposto a perdere + o- tutto quello che di materiale ho e mia moglie anche ma avendo già vissuto fin qui senza dare importanza all’acumulo di beni materiali abbiamo veramente poco da perdere in quel senso,continuo l’analisi pensando che da più di un anno teniamo fede a tutti i nostri impegni economici senza la garanzia di un entrata,ma salvando il risultato giorno per giorno e anche questo è segno di essere pronti a vivere senza troppe garanzie di entrata economica,il nostro bimbo sorride e vive abbastanza spensierato segno ,credo,che stiamo ancora trasmettendo tranquillità anche in questa condizione,pero e c’è un però quanto resisteremo ancora?
infatti questo vivere con poco è nelle nostre corde ma mal si addice con il restare all’interno della società così come è strutturata oggi.
il paradosso è che dal mio personale punto di vista odierno, per uscire dal sistema economico cunsumistico che ci attanaglia ,abbiamo bisogno di soldi.
che casino…………saluti a tutti
morris
Tantissimi e talmente soggettivi… vero. Verissimo.
Puoi chiamarlo trade-off, se vuoi. O analisi “costi-benefici”. Non importa.
Credo (ma occhio: “credo” solo, non esistono ricette universali) che una possibile risposta sia qui. Su un piatto della bilancia metti le cose a cui ti hanno abituato decenni di benessere. Sull’altro piatto metti invece i costi che queste cose stanno comportando. Per te e per i tuoi cari. Sogni prima ridicolizzati, poi infranti. Prospettive annullate. Licenziamenti. Anni buttati al vento. Miseria. Salute. Cioè Vita. Vita!
Quali di questi costi puoi ancora pagare? Quali no? Fino a che punto è “etico” aprire il portafoglio, per ottenere quel fantomatico benessere (o, come dice giustamente Giovanna, ben-avere)?
Dov’è quel punto, per te? Dov’è, per me? Ognuno ha il suo, per fortuna.
Ma tutti ne hanno uno, di questo puoi star certo. Anche quelli che, a loro dire, non si pongono limiti. Anche loro, se Dio vuole!
il vivere low presenta sicuramente tante incognite e ovviamente non si tratta di scelte facili. a volte, però, mi chiedo: “cosa sono disposto a perdere continuando a vivere dentro al sistema?” anche in questo caso la posta in gioco è alta. molte volte quello che si può perdere è la salute, il tempo da dedicare alle persone più care, il tempo da dedicare a sè stessi, ecc non certo cose di poco conto anzi, forse la stessa essenza della vita. muoversi verso la decrescita non è facile ma se pensiamo a quello che perdiamo rimanendo attaccati alla vita di sempre…. bè, forse potremmo avere qualche stimolo in più.
La penso allo stesso modo. Non è tanto ciò verso cui siamo diretti (che spesso è ignoto) a darci lo stimolo necessario, quanto ciò da cui vogliamo fuggire. Forse questo ha a che fare col nostro essere una generazione “viziata”: occorre, autocriticamente, ammetterlo. Ma più probabilmente dipende – così almeno credo – dalla presa di coscienza dello stato degenerativo in cui versano ormai le cose…
Un discorso simile lo avevo sviluppato meglio e in modo più articolato in uno dei primi post di LLHT: Decrescita utopistica o… utopia decrescente?
Ciao
PS
Sto preparando un post (uno di quelli belli tosti… ;-)) in cui analizzo le risultanze dello studio di due autorevolissimi epidemiologi su come i livelli di disuguaglianza sociale si riflettano su numerosissimi indicatori della qualità della vita delle popolazioni. E’ un testo stupendo (un po’ tecnico, ma dal taglio sicuramente divulgativo), che ho anche consigliato come libro del mese qualche settimana fa, qui su LLHT. E’ un post che mi sta richiedendo non pochi sforzi, più che altro per il grosso lavoro di sintesi che sono costretto a fare. Tuttavia, lo considero un tema bellissimo e all’avanguardia. Oggi tutti parlano di libertà. La parola chiave tornerà ad essere “uguaglianza”. Prepariamoci…
Non so, Andrea… Non sono tanto d’accordo con te. O almeno con questa immagine che vivere low significhi essenzialmente sacrificio e salti nel buio, quasi come andare incontro alla morte, andare in guerra o buttarsi dal quinto piano… Ho riflettuto per un po’ dopo aver letto il tuo post e ho cercato di ricostruire il mio percorso e come sia iniziato. Cioè da che momento ho deciso, ho cambiato qualcosa, ho capito. Non ho saputo ricostruire questo percorso. Semplicemente perché non si è trattato di fare passaggi brutali o rinunce e privazioni. O almeno per come le ho vissute io. Non c’è stato un momento in cui sono passata dal nero al bianco. Non un momento in cui ho chiuso definitivamente una porta per aprirne un’altra senza sapere o conoscere cosa c’era oltre.
E’ stato tutto estremamente graduale. Una serie di scalini che sono riuscita a salire (oppure a scendere, dipende dai punti di vista) uno per volta. Il mio obiettivo non è stato mai arrivare in cima o in fondo alla scala. Non ho seguito obiettivi, in realtà. Ma solo desideri, necessità. Era solo da quel gradino che si accendeva la luce per salire (o scendere) l’altro. Non prima. E’ sempre stato così nel mio percorso. E non so esattamente dove questo mi porterà. Mi interessa solo dove sono adesso e sicuramente sono più felice e più in equilibrio di prima.
Il tuo episodio del telefonino mi fa venire in mente una cosa che è successa a me. Non col telefonino ma con la carta di credito. Ho cominciato a interessarmene perché volevo eliminare ciò che per me non era necessario. E mi sono chiesta se la carta di credito lo fosse. La risposta a me stessa è stata: certo! E’ assolutamente necessaria e senza non si può vivere”. Quindi non si può eliminare.
Bene. Mi son detta. E’ assolutamente necessaria. Beh vediamo se è vero. Così ho provato a non usarla per un mese. E ho visto che ogni volta che volevo usarla avevo, in realtà, un’alternativa. Così non l’ho usata per mesi. E ne ho visto tutti i benefici. Dopo un anno mi son detta: “bene, posso non usarla ma la tengo per sicurezza”… Ho chiesto consiglio a qualche amico: risposta unanime: meglio tenerla per sicurezza”…
Dopo qualche mese ho cominciato a riflettere su quella “sicurezza”. In sostanza siamo talmente condizionati che se non abbiamo la carta di credito ci sentiamo insicuri? Ma insicuri di cosa? Visto che io non spendo i soldi che non ho? Dopo qualche mese ancora, cioè in questi giorni, ho deciso di annullarla. Non mi serve più. Non mi è utile. Mi costa dei soldi che posso utilizzare in modo decisamente più proficuo. E’ una liberazione da qualcosa che (per me) è (al momento) decisamente superfluo.
Sto bene, non ne sento la necessità, separarmene non mi causa alcuna ansia. Anzi, mi fa sentire meglio. Se me ne fossi privata e basta e all’improvviso con un’imposizione non sarebbe stato lo stesso.
Perché dico questo? Volevo solo dirti come è stato e come continua ad essere per me. Io credo che ci siano dei tempi naturali e del tutto personali da rispettare. Vivere low non deve avere, secondo me, un prezzo troppo alto. Deve avere il prezzo giusto. Quello che siamo disposti e che possiamo pagare volta per volta. Pena doversela vedere con altro stress, perdita della serenità e angosce inutili.
Se invece il conto da pagare arrivasse per forza di cose tutto insieme e non potesse aspettare i nostri tempi… beh allora, in quel caso si è costretti a buttarsi, ad accelerare, a dare fondo a tutto il coraggio possibile…
Grazie delle tue parole. Apprezzo il disaccordo più dell’accordo. Il dissenso più del consenso. Non è retorica.
Hai ragionissima: tutto sta nel livello di “gradualità” con cui si affrontano i cambiamenti. E, consentimi, nella resilienza del contesto al tuo cambiamento. Tu testimoni una progressione lenta, ragionata e graduale. O, comunque, dettata dai tuoi sentimenti e dal tuo desiderio di cambiare: l’esempio della carta di credito è illuminante, in questo senso.
Ancora una volta, mi sembra di capire, è il tempo la variabile-chiave. Purtroppo. Quanto tempo abbiamo, per percorrere quella scala (non importa se in salita o in discesa)? Se la banca ti avesse applicato una commissione alla carta di credito di mille euro al giorno, credo che avresti deciso più in fretta. Tempo e denaro: sempre quelli…! Che sfiga, eh? 😉
Ora: io fortunatamente non ho l’acqua alla gola. Ma ci sono altri fattori condizionanati. E impellenti. Quanto a lungo può durare lo stato di stand-by? Quanto tempo ancora? Quanto tempo ti viene lasciato? Non uso la metafora della clessidra perché mi sembra ingeneroso per chi ha davvero le ore contate.
Ma la portata di un cambiamento è strettamente collegata agli equilibri che, attuandolo, si scardinano. A volte, sembra che quei grani di sabbia corrano a più non posso. A volte sembrano fermarsi. Eppure, la strozzatura del vetro è sempre la stessa. Tutto dipende dalla nostra percezione. E dai fatti che la alimentano. Questi fatti, ti prego di fidarti, stanno ultimamente alterando molto la mia percezione.
Inoltre, c’è l’aspetto legato al “punto da cui si parte”. Chi è arrivato più in alto, cadendo, si fa più male: è lapalissiano, lo so bene. Tuttavia, ricordo volentieri il recente intervento di un lettore (Flavio) che, credo assai opportunamente, argomentava come la scelta di scendere quei gradini, da parte di chi ne ha prima saliti tantissimi, sia per molti aspetti più ricca di significati (e di insegnamenti), rispetto a chi quei gradini non li ha mai saliti (vuoi per volontà, vuoi per costrizione). Se non altro, perché quella scelta ha necessariamente implicato un livello di motivazione e di conflittualità superiori.
Dici infine parole piene di saggezza, quando metti in guardia contro scelte che, generando nuovo stress, rischiano di peggiorare la situazione, anziché migliorarla. Ma la saggezza è universale. Il retaggio, purtroppo, individuale. Ciao!
Mi sembra di capire che dietro c’è la costruzione di un “io” o di un “noi” autonomo: cioè che si dà le sue leggi, non disposto a ubbidire alle leggi del ” si dice” e del “si fa così” ( dove il “si” fa riferimento a un’ipotetica comunità concorde ). Costruire è molto più faticoso che distruggere, perché ha tempi più lunghi e perché ha bisogno di fondamenta: valori ( sono troppo svalutati?), significato profondo del vivere ( avere risposto, o almeno averci provato, alla domanda: qual è il senso della mia vita su questa terra?), cosa si intende con benessere ( e non con “ben-avere”) e con felicità ( non semplice soddisfazione di bisogni, ma gioia e senso di pienezza, forse?). L’economia è per l’uomo e non viceversa: questo è già un primo passo.
Ciao Giovanna. L’autonomia fa rima con anarchia. E non mi piace, lo confesso. Quanto invece alla indisposizione a ubbidire alle leggi dettate dalle convenzioni sociali (o, come giustamente dici, comunitarie), il discorso qui è leggermente più complesso, temo. Verissimo: l’economia è per l’uomo e non viceversa. Così, almeno, dovrebbe essere. Purtroppo, però, siamo ben lontani dall’avere sopra le nostre teste un cielo etico… Alzi lo sguardo e cosa vedi? Vedi un’economia per l’uomo o vedi piuttosto un uomo soggiogato da leggi che lo stanno prospetticamente annichilendo, senza che ne sia consapevole?
E allora mi chiedo: fino a quando dovremo accettare la subordinazione, cieca e indiscriminata, dell’uomo all’economia? Uso categorie semplificate, che non snaturino comunque il senso del discorso. Qual è il limite? La “comunità concorde”, certo: è quello il limite. Edmund Burke una volta disse: “Esiste un limite oltre il quale la tolleranza non è più una virtù.” In alcuni casi, ormai, non si parla nemmeno più di solo tolleranza: in alcuni casi la tolleranza portata all’eccesso si ripercuote sullo stato di salute. E allora? Rivoluzione terapeutica? Disobbedienza civile? Ma per carità! Non ne sarei nemmeno capace…!
Per quanto tempo ancora, però, dovremo continuare ad ubbidire alle leggi scritte da altri che, però, si ripercuotono negativamente sul nostro stile di vita? Mi riferisco alle leggi dell’accumulo, dell’accrescimento fine a se stesso…
Ci si può rifugiare nel tentativo di dare una risposta alle domande fondanti che tu accenni, certo. Ma quelle risposte spettano ai filosofi. O ai teologi. Ma qui mi fermo, perché rischio di sconfinare in un campo su cui potrei solo essere ridicolizzato! 😉
Il senso del mio intervento, come sempre, è un invito a domandarsi quale sia il limite della passiva accettazione di norme che minano alla nostra salute. Individuale e collettiva. Ciao e come sempre grazie per gli stimoli.