Nel suo celebre “Fuga dalla libertà” del 1941, Erich Fromm afferma quanto segue:
[…] L’uomo moderno, liberato dalle costrizioni della società pre-individualistica, che al tempo stesso gli dava sicurezza e lo limitava, non ha raggiunto la libertà nel senso positivo di realizzazione del proprio essere: cioè di espressione delle sue potenzialità intellettuali, emotive e sensoriali. Pur avendogli portato indipendenza e razionalità, la libertà lo ha reso isolato e, pertanto, ansioso e impotente.
[…] Solo le qualità che sorgono dalla nostra attività spontanea danno forza all’io e formano pertanto la base della sua integrità. L’incapacità di agire spontaneamente, di esprimere quel che veramente si sente e si pensa, e la conseguente necessità di presentare uno pseudo “io” agli altri e a se stessi, sono la radice del sentimento di inferiorità e di debolezza. Che ne siamo o no coscienti, non c’è nulla di cui ci vergogniamo di più del fatto di non essere noi stessi, e non c’è nulla che ci dia più orgoglio o felicità di pensare, sentire e dire quel che è nostro. Ciò implica che quello che importa è l’attività in quanto tale, il processo e non il risultato.
Ieri, una domenica come non se ne vedevano da mesi, avevo due cose da fare. Due.
La prima era segare il campo: l’erba e le sterpaglie arrivavano infatti quasi all’altezza delle spalle e, se non avessi provveduto in fretta, il muro di vegetazione sarebbe stato troppo compatto e impenetrabile anche per il rostro della trincia collegata al trattore.
La seconda cosa che dovevo fare ieri era… riflettere. Valutare. Soppesare. Tutte attività che riguardano una sfera estremamente privata, sulle quali non spenderò quindi troppe parole. Dovevo affrontare un problema (meglio: un’opportunità che celava un possibile problema) e dovevo in qualche modo decidere come affrontarlo. Una scelta, insomma.
Ma torniamo alla libertà e, con essa, alla prima delle due cose che avevo da fare.
Non tagliavo l’erba da aprile, da quando cioè le primule avevano timidamente provato ad annunciare la fine dell’inverno. Niente da fare, però: ci sarebbero state altre settimane di piogge intense, con relativo impatto sulla vegetazione selvatica. La giornata era splendida. Come avevo previsto, il sole batteva (ma senza infastidire) e la brezza che proveniva dal crinale era un sussurro della natura praticamente perfetto: consolante, discreto, amico. Sapevo che avrei avuto bisogno di quel bisbiglio rassicurante, anche per affrontare con la necessaria serenità la seconda cosa che dovevo fare ieri: riflettere.
Il quattro-tempi Perkins cantava a meraviglia. Il battistrada mordeva armoniosamente le irregolarità del terreno, reso più sconnesso dalle buche scavate dai cinghiali. Il che, come sempre, richiedeva anche un minimo di concentrazione in più. Concentrazione che però, purtroppo, non mi è bastata quando a un certo punto, sfiorando un’area dove anni fa avevo lasciato, sdraiati per terra, un paio di “fogli” di rete elettrosaldata (una rete per amatura che si usa in edilizia, fatta da un tondino di ferro del diametro di un mignolo), ho tirato su l’intera matassa di ferro! La trincia attaccata al trattore ha un rostro rotante con un centinaio di lame: essa taglia, in estrema scioltezza, rami e arbusti del diametro anche di due pollici. Ma non… il tondino di ferro! Quello, lo ha solo… “avvolto” (fortunatamente senza danneggiarsi): come un filo di lana intorno a una matassa. Più o meno…
Anni fa, quando non sapevo che si potesse anche vivere la propria vita, a parte non avere mai nemmeno immaginato di potermi prima o poi imbattere in un episodio del genere, credevo che una tale situazione avrebbe richiesto l’intervento di un meccanico. Di un fabbro. O, comunque, di uno che sapesse dove mettere le mani e che, per tutta la sua vita, non aveva mai fatto altro. Non certo, comunque, di una persona che ha trascorso anni sui libri o dietro una scrivania…
Ho quindi portato il mezzo nella rimessa, ho sollevato il marchingegno con un verricello e, sdraiatomi sotto al rullo incastrato, ho studiato la situazione: essendo impossibile srotolarlo con pinze o tronchesi (troppo duro), sarebbe “bastato” segare quel groviglio di ferro con un flessibile. Cosa che, nell’arco di un paio d’ore, ho pazientemente fatto. Entro l’ora di pranzo, la trincia era nuovamente utilizzabile!
Ma che cosa c’entra, tutto questo, con la libertà?
Questo blog parla di economia, di società e di decrescita. Questo blog narra quindi, col necessario disincanto, le considerazioni di un folle che – persuasosi quasi dieci anni fa che l’attuale modello socioeconomico liberista (basato su finti bisogni, consumi compulsivi e insostenibili sprechi) non avrebbe potuto che condurci al collasso – ha compiuto una scelta di… resilienza. Cioè, in altre parole, si è dotato di un’alternativa.
Ma perché? Cosa c’era poi che non andava, in quel sistema? Vi butto lì un paio di considerazioni a caldo (su ognuna delle quali ci sarebbe da spendere un paio d’ore):
- Sperequazione nella distribuzione della ricchezza
- Ipnosi consumistica collettiva
- Ricatto generazionale
- Insostenibilità ambientale
- Crescenti livelli di stress e di disagi socio-sanitari
- Soppressione del soggetto in favore dell’individuo
- Meccanismo della deresponsabilizzazione eletto a modello relazionale dominante
- Trasformazione dei bisogni in fabbisogni
Questi gravissimi effetti collaterali del paradigma economico neoliberista, fondato sui concetti di “crescita” e di “accumulo incondizionato”, sono il pane quotidiano dei lettori di LLHT, come ampiamente (e scientificamente) dimostrato nei post precedenti, anche con l’aiuto di alcuni concetti mutuati dalla microeconomia classica. E, se ci si pensa bene, questi effetti collaterali hanno un solo, sconcertante denominatore comune: la contrazione della libertà individuale.
In ogni scelta della nostra vita quotidiana, se ci pensiamo, siamo costituzionalmente non-liberi. Evito gli esempi, perché ogni cosa che facciamo – ogni cosa! – è in un qualche modo predeterminata da scelte altrui. Anche il fatto stesso che io stia scrivendo, oggi, su questo blog, usando WordPress è una scelta non completamente “mia”: è una scelta che mi è infatti consentita dall’inventore di questo sistema di comunicazione, da una prassi relazionale che mi ha (anche involontariamente) “condotto” al social-networking, cioè a quel perverso meccanismo psicologico di massa che mi ha in un qualche modo persuaso di avere qualcosa di interessante da raccontare agli altri. Quando, magari, così non è…
Ieri, però… quando ho dovuto decidere se sdraiarmi sotto la trincia, investire due ore del mio tempo in un’attività che, se conclusa con successo, mi avrebbe fatto risparmiare tanto tempo (oltre ai soldi da dare al meccanico!), mi sono sentito libero: ho riparato con le mie mani e con il mio ingegno un danno decisamente serio. Mentre le scintille del ferro segato colpivano la mia maschera di protezione, mentre stavo riparando il “mio” trattore con le “mie” mani, io mi sentivo libero. Anzi: ero libero. Non dovevo rendere conto a nessuno, tranne che alla mia cautela. E quando, alla fine, ho riacceso il Perkins, ho dato gas e ho visto che tutto funzionava… bè, vi lascio immaginare che show!
Ciao
PS. Anche la seconda cosa che avevo da fare ieri, poi… l’ho fatta: ho preso quella decisione. Ma questa è tutta un’altra storia. 😉
Questo è anche quello che considero il messaggio principale del poco che ho letto di Illich: la società del terziario, dei servizi, della delega e del denaro obbligatorio non solo è meno efficiente di quanto vorrebbe (o crede) il cittadino ma toglie all’uomo la soddisfazione di bastare a sè stesso. Questo una volta, anche senza decidere di andare a fare il pioniere nei boschi, era un problema meno sentito. Personalmente posso dire che nella mia città un autobus e una bicicletta viaggiano più o meno con la stessa rapidità. Ma nell’autobus non ho nulla da fare, mentre la bicicletta è una soddisfazione
Credo che l’uomo non possa bastare a se stesso. Esperienze estreme in questo senso, ai limiti dell’insostenibilità (penso a Christopher McCandless, protagonista della storia a cui si ispira il celebre “Into the wild”, o allo stesso Thoreau), si sono spesso risolte con esiti non certo brillanti.
L’uomo ha bisogno dei suoi simili. Qualcuno individua nei cosiddetti beni relazionali il vero strumento per il soddisfacimento di questo effettivo bisogno.
I problemi sorgono quando i bisogni, invece, sono illusori, effimeri. Quei bisogni, cioè, che ci induce la società neomercantile, tramite il suo subdolo alfiere: il consumismo.
Ed è solo da questo mostro – che mi ostino a definire “ipnotico” – che dobbiamo difenderci. Il resto verrà da sé.
Ciao Marco.
Non intendevo per forza il bastare a sè stesso in senso assoluto (l’uomo non è un criceto) quanto piuttosto l’idea di poter risolvere i propri problemi senza affidarsi per qualsiasi cosa al denaro, ai servizi avanzati, alla competenza di uno specialista solo di quel ramo. Oggi non esci di casa che hai bisogno di uno che ti aggiusti l’auto, di un altro che ti tessa il vestito, di altri che ti abbiano costruito l’ufficio. E tu stesso fornisci un servizio parcellizzato ad altri in cambio di denaro per comprare servizi dalla comunità. Poi perdi il lavoro (o vai in pensione) e scopri che hai fatto una sola cosa, magari inutile a te, per tutta la tua vita, che non t’è neanche piaciuto e che non sai fare altro, dunque ti dai a tutte quelle forme multimediali (film, musica, libri, anche internet) che sono fatte per essere arte e completare la vita ma a te basta riempire il tuo tempo triste. C’è un uomo migliore di questo, non ti pare?
Mi pare eccome! Credo che la questione fondamentale, alla base di tutto, sia riuscire a combinare qualcosa, nella propria vita, che sia in piena sintonia con la nostra natura più intima. Per qualcuno, questa cosa può essere inseguire il profitto facendo soldi a palate. Per qualcuno, invece, può essere dedicarsi al volontariato. O saper riparare un rubinetto, mettendo questa sua conoscenza a disposizione di chi non lo sa fare. Occorre solo trovare la propria strada. Cosa che, purtroppo, non sempre è facile…
Ciao
Per dare spessore culturale al mio precedente commento ti racconto un aneddoto che Kierkegaard ( lo hai capito, è tra i miei filosofi preferiti) riferisce in Aut-Aut, il libro che dedica alla scelta, appunto. Un glottologo rimane su un testo antico delle ore perché non riesce a decifrare un piccolo segno, che non aveva mai incontrato nei suoi studi , quando la moglie, che è venuta a chiamarlo per il pranzo, con la mano elimina quel granello di polvere dal suo prezioso documento, riconoscendolo subito per quello che è: un granello di polvere, appunto. Ah! le donne!
Interpretazione dell’uomo:
A tutte le lettrici del blog (che in questo momento sto rischiando di perdere per sempre!): era solo una battuta, speculare a quella di Giovanna, che conosco bene e con la quale, proprio per questo, mi sono permesso di scherzare! 😉
(…E anche per strapparci ogni tanto qualche sorriso, tra tanti argomenti seri!)
Ciao
Caro Andrea,
da quasi un anno leggo con una certa apprensione i tuoi post. Non capisco niente di economia. La “crisi” in casa si è sempre vissuta come buona abitudine alla frugalità, sia nella famiglia di origine sia oggi nella mia.
Ogni giorno ho la sensazione che si viva sul filo del rasoio e sono in cerca di piccoli segnali che mi indichino cosa devo fare, quali decisioni prendere. Chiariamolo, non ho più fiducia dei politici vecchi e nuovi che dissennatamente hanno provocato lo sfascio e ora lo completano, ma sono anche molto dubbiosa su chi proclama la decrescita come rimedio. Mi spiego: avrebbe un senso passare alla D.F. se in Italia non ci fossero questi problemi :
http://www.allarmeinfanzia.it/wp-content/uploads/2013/05/dossier.pdf . (mi sembra un documento allucinante…..da prima pagina se in questo paese si badasse alle cose serie)
DF cioè attecchisce in una società solo dove ogni individuo è responsabile delle proprie azioni, è istruito e se non lo è cerca sempre di approfondire la conoscenza, dove esiste fiducia nel prossimo, dove si condividono idee e cose, ecc
Non mi pare che in Italia la popolazione si comporti in quel modo, nonostante la sensibilità per certe tematiche sia in aumento.
Sono una disfattista, è vero, anche se nella vita quotidiana porto avanti ideali molto simili ai tuoi: non riesco però a non essere realista.
E’ interessante il discorso della libertà: la libertà è una chimera, quasi nessuno di noi riesce a goderne dello spirito puro della libertà. Io ho un’idea: in realtà abbiamo una gran paura della libertà non sappiamo che farcene. Se per caso riusciamo ad ottenerla stai sicuro che faremo in modo di imbrigliarci con altri orpelli.
non ho mai commentato i tuoi post, un po’ per mancanza di tempo e un po’ per mancanza di argomentazione.
C’è un post però che non ho proprio digerito: la misura dell’anima. già il fatto che due si mettono a far conti con numeri senza aver vissuto in ciascuno di quei paesi (perchè non credo l’abbiamo fatto, giusto? è quasi impossibile) mi sembra una grossa generalizzazione…poi guardando fra i paesi che “stanno meglio” vedo il Giappone, oltre a certe eccellenze nord europee. Credo che allora tornando al discorso della libertà c’è qualcosa che non torna…Conosco un po’ il Giappone, e l’idea che mi sono fatta è che ci sia di fondo un “patto sociale” con lo Stato, non saprei come altro definirlo. Io Stato mi impegno a far funzionare i servizi pubblici, scuole ospedali burocrazia, polizia ergo sicurezza e controllo su tutto, ma tu cittadino rinunci a certe di libertà di espressione (v.protesta), di informazione (v.alcuni casi di censura, vista per il bene del paese) e mi prometti di lavorare 6 giorni su 7 perchè farò in modo di trovarti un qlsi lavoro anche inutile, ma niente ferie, totale fedeltà all’azienda. oggi le cose sono cambiate c’è più precariato anche là, ma se ci sono indici così positivi io penso siano dovuti a questo compromesso da parte di un popolo docile e coscienzioso.
scusa se non stata troppo lunga avrei tante cose da scrivere ma sono di fretta!!! alla prossima
Scusa, ma sento il bisogno di intervenire su queste tue frasi:
“DF cioè attecchisce in una società solo dove ogni individuo è responsabile delle proprie azioni, è istruito e se non lo è cerca sempre di approfondire la conoscenza, dove esiste fiducia nel prossimo, dove si condividono idee e cose, ecc
Non mi pare che in Italia la popolazione si comporti in quel modo, nonostante la sensibilità per certe tematiche sia in aumento.”
La precisazione che mi sento di fare è questa: non pensare all’Italia, pensa alle situazioni (alle persone) che hai attorno.
Rasségnati, non hai le spalle abbastanza grosse per cambiare l’Italia. Ciascuno di noi le ha per cambiare – a volte in maniera significativa – alcune cose nel raggio del suo intervento.
E – se si agisce in questo modo – attenzione ai sensi di colpa: guai a sentirsi egoisti, perché si pensa al proprio quartiere, al proprio condominio, mentre in Italia accade questo e accade quello. Si tratta solo di fare la propria parte ANCHE per gli altri e a misura delle proprie forze: perché facendo star bene le persone e l’ambiente attorno a noi, staremo meglio noi.
Cavoli, Alberto: mentre rispondevo a Sara è arrivata simultaneamente la tua risposta… quasi identica.
Garantisco per entrambi che non ci siamo copiati a vicenda! 😉
Ciao
Concordo. L’ Italia è marcia come complesso, come sistema, non come singoli. Anzi, quello che in altri paesi è cittadinanza ed educazione, in Italia è faticosa virtù, dunque non troverai mai più consapevolezza altrove che in Italia: qui “comportarsi bene” non è, come altrove convenienza, conformismo o abitudine bensì, all’inverso, è sforzo isolato e faticoso. Quelli che lo fanno lo fanno dandoci un valore che un tedesco e un inglese non possono capire perché loro lo fanno come comunità, noi come singoli nonostante la comunità.
Ciao Sara,
prima di ogni altra cosa, le formalità… A tutti i nuovi iscritti ad LLHT mando sempre una mail di benvenuto, per cercare di trasmettere la vicinanza del blog alla loro (sana) curiosità. Nel tuo caso, essendo la tua iscrizione contestuale al tuo primo intervento, ti do invece il benvenuto in questo modo, pubblicamente.
E lo farò in due modi:
1) ringraziandoti per la fedeltà che dimostri ad LLHT fin dal suo inizio (meno di un anno fa);
2) tirandoti le orecchie per non aver mai fatto altri commenti prima, visto lo spessore delle cose che dici!!! 😉
Mi sono infatti permesso di evidenziare una tua frase (cosa che non faccio mai, nei commenti dei lettori, salvo rarissime eccezioni) che, in poche parole, concentra alla perfezione l’intero presupposto per l’applicabilità socioeconomica della Decrescita su larga scala e, più in generale, per l’adozione di stili di vita “low” e ispirati alla sobrietà.
Tu dici, infatti:
Un altro lettore, che conosco personalmente e per cui ho una stima esagerata, ricalca spessissimo il tema della responsabilità. Io stesso, alcuni post fa, ho introdotto il tema della responsabilià individuale e sociale, muovendo il ragionamento dalle proteste anti-TAV.
La domanda che allora io mi faccio (e alla quale trovo sempre, immancabilmente, la stessa risposta) è: come possono le mie scelte, che ritengo responsabili, coesistere pacificamente con le scelte altrui, che nella maggior parte dei casi ritengo irresponsabili? Possono la mia non-conflittualità, la mia non-competizione, il mio senso del rispetto conciliarsi con schemi comportamentali diametralmente opposti?
La risposta è ovvia. E te la sei già data tu.
Però, proprio lì, proprio in quel punto preciso – e solo per qualcuno, occhio! – scatta un meccanismo di sano e costruttivo egoismo, che suona più o meno così:
Applicando con costanza e – permettimi – con irriverenza questo principio, non importa se nessuno saprà ascoltare. Saranno problemi loro. Ma succederà sempre – dico SEMPRE – che qualcuno, intercettando la mia determinazione, si domanderà solo una cosetta, facile facile: perché fa così?
E, quando se lo sarà domandato, avrà così predisposto se stesso ad ascoltare. E, verosimilmente, ad accettare. Così, saremo già diventati in due. Poi in quattro. E via così.
I modelli, Sara, hanno una forza spaventosa, incredibile. E non esistono solo i modelli negativi, in giro. Ce ne sono anche – e tantissimi – di positivi. Occorre puntare sulla forza degli esempi. Sul coraggio di scelte inusuali e, a volte, spiazzanti. Solo così, si può sperare di cambiare – oltre a se stessi – anche chi ti sta accanto.
“Occorre essere seri, solo questo è il tributo.” scrissi una volta.
Il cambiamento è in sè un atto rivoluzionario. Ma la rivoluzione deve essere individuale. Il cambiamento su base collettiva, infatti, si chiama democrazia. E, mi sento di poter dire, ha fallito miseramente…
Qualcuno, decisamente più autorevole e lungimirante di me, disse invece una volta:
Ecco, facciamo in modo di essere noi i primi a non accodarci!
Ciao Sara e ancora tante grazie per il tuo stupendo intervento.
Andrea
PS
Corro a leggere il documento di Save the Children che ci hai indicato. Se (quando vorrai e avrai tempo) te la senti di scrivere un pezzo, LLHT è a tua disposizione.
PPS
Non accusarti di disfattismo. Come tu stessa affermi, invece, il tuo “problema” è il realismo. Ma fidati: di questi tempi, ce n’è un gran bisogno! 😉
Se mi permetti un commento “femminista”: è proprio questo che distingue l’approccio maschile alla realtà da quello femminile. Le donne sono abituate da sempre, per il ruolo che la natura e/o la società ha loro assegnato, a risolvere problemi di ordine pratico contando esclusivamente sulle proprie forze. Per questo, forse, incentivare la presenza femminile, senza che la donna debba essere snaturata per assomigliare agli uomini, potrebbe essere una chiave che apre al cambiamento del modello dominante.
Sfondi una porta aperta, Giovanna. Voi donne siete strutturalmente predisposte per svolgere (bene) più attività simultaneamente. Noi maschietti, invece, ne svolgiamo una alla volta. Il vero problema è che, sia le “molte” delle donne, che l'”unica” nostra, vengono ormai sempre più spesso subappaltate a strumenti o altre persone (erroneamente ritenute di un ragno sociale inferiore), che le svolgono al posto nostro. Non è un problema di sesso, ma di… predisposizione alla delega. O di rinuncia all’autosufficienza, che è più o meno la stessa cosa.
L’articolo, comunque, voleva riferirisi in particolare proprio al recupero della manualità, in un’epoca – come la nostra – in cui le nostre mani sembrano essersi atrofizzate e in cui il pollice opponibile sembra sia ormai diventato solo un… accessorio dell’i-phone, per scorrere sullo schermo. Sigh.
La stessa inebriante sensazione che provavo domenica quando, in piedi su una scala a pioli, segavo rami di pino spessi come tronchi, li sfalciavo e li accatastavo immaginandoli come palizzate, fianchi di terrazzamenti… Andrea, prima o poi ci si incontra anche di persona… Ciao!
Ne sono convinto anch’io. I progetti evolvono insieme alle persone. Anzi: grazie alle persone. Ciao, a presto
Per la Peppa!
Andrea, due ore di riflessione per ogni argomento e
due decenni per risolverli? o non bastano?
Comunque bravissimo a mettere dei veri problemi alla riflessione di tutti,
ciao e grazie.
Ignazio.
Ciao Ignazio,
se l’Italia fosse popolata in prevalenza da persone responsabili e seriamente interessate al benessere collettivo, ne basterebbero due, di anni. Non venti.
Ma, nelle condizioni in qui ci troviamo, temo invece che potrebbero non bastarne duecento…
Ciao e grazie a te.