E’ una di quelle mattine strane, questa. Siamo a fine luglio, ma se non fosse per quella livida luminescenza dell’aria, potrebbe benissimo essere novembre. C’è quasi freddo. E, soprattutto, c’è silenzio. Il mio corpo, i miei abiti, il mio umore… sono quelli estivi. Diventa quindi inevitabile avvertire quel vago senso di inadeguatezza tra come sei (tonificato, svestito, luminoso) e come ci si aspetterebbe che fossi (intorpidito, coperto, cupo). E’ una sensazione di sottile precarietà, una specie di spiazzamento tra l’inizio di una giornata speciale (come tutte) e questa sensazione di sostanziale imprevedibilità (come tutto).
E allora pensi. Pensi forte. Pensi a cose che, in altre circostanze, avrebbero forse sollevato dubbi, resistenze, frizioni. Persino qualche arrabbiatura. Ma oggi no. In questa atmosfera di sospensione, no. Tutto è magicamente ovattato. Camuffato di quella accogliente, benefica straordinarietà. E allora ne approfitti. Per pensare alla cosa più pervasiva che esista: la tua generazione.
Questa mattina, a casa nostra, c’erano due ospiti speciali. Due persone che ogni essere umano dovrebbe avere a colazione, almeno una volta nella vita. Per non parlare delle solite ovvietà. Per affrontare la vita con occhi diversi. Per sapere riconoscere le emozioni. Accoglierle. Succhiarne il succo.
Eravamo gli esponenti illuminati della generazione dei quarantenni. Quella che sa. Ma che non può. Quella che ha visto. Ma a cui tentano di far dimenticare. Quella che vede. Ma a cui vogliono cucire le palpebre. Quella che urla. Ma che vorrebbero zittire. Quella che cambia. Ma che provano a imbalsamare.
E allora i pensieri scorrono inevitabilmente ad altre… istantanee. Ad altri esponenti della nostra generazione. Quelli indicati da qualcuno per “cambiare” (virgolette obbligatorie) il nostro tempo. Quarantenni messi lì da sessantenni e difesi da ottantenni. Incapaci di esprimere un’idea, un progetto, un’ambizione. Che sia loro. Che sia nata e si sia sviluppata nel loro cuore, prima ancora che nelle loro agende ministeriali. Sì: penso per esempio a Maria Elena Boschi, che ogni dieci minuti corre nel bagno del Senato per riferire al suo capo quanto sta accadendo in aula, e per ricevere le regole di ingaggio sulle modalità di replica. Consuetudini dozzinalmente aziendali, scene viste e riviste (quando ancora lavoravo). Penso al tono di voce del Ministro. Tremante, indispettito, acidulo. Non voglio dare giudizi politici, non questa volta. Mi limito a dare giudizi umani. Non mi interessano i politici di professione. Non più. Ma mi interesserebbe che chi ha in mano il nostro destino esprimesse almeno quel minimo di umanità che – qualora si trovasse un giorno a colazione da noi – gli consentisse di esprimersi come lo abbiamo fatto noi questa mattina. Ridendo, pure incazzandoci un poco, ma… credendoci. E sentendolo “proprio”. Perché… eravamo noi stessi. Senza quelle maschere che le gerarchie e le convenienze ci fanno indossare.
L’esempio del Ministro delle Riforme è solo uno dei cento che si potrebbero elencare. Ma ripeto: non sono valutazioni politiche, le mie. Sono valutazioni umane. E si riferiscono – nell’esempio citato – all’incapacità di prendere una decisione (o anche solo di ribattere) in autonomia. All’incapacità di saper trasmettere un ideale. O anche solo un’idea. E questo rivela come tutto sia, in fondo, eterodiretto.
E’ triste. A volte, anche su LLHT, mi sono arrabbiato con i veri decision-maker. Dove sono? A Bruxelles? A Berlino? A Washington? Ha una qualche importanza? No, non ce l’ha. Perché i veri decision-maker delle nostre vite si trovano – udite, udite! – nelle nostre teste.
[Ora ha cominciato a piovigginare…]
Vorrei però che chi decide per me a livello politico, sapesse cosa davvero è importante per la mia felicità (sì: non dobbiamo avere paura di usarla, questa parola). Vorrei che si togliessero quelle maschere. E che la smettessero di ripetermi che per il mio benessere è importante una nuova legge elettorale. O l’abolizione del Senato. Perché non ci credono neanche loro, si capisce benissimo. Dunque, è evidente che mi stanno mentendo. E non mi interessano i tecnicismi. Non ora. Mi interessa il senso profondo delle cose, adesso. Mi interessa che non ci prendiamo in giro, tra noi. Perché abbiamo quarant’anni. Sia Voi che noi. E allora dobbiamo dirci le cose come stanno, se ne siete in grado.
Vorrei che a colazione con noi, questa mattina, ci fossero stati la Boschi, la Serracchiani, Speranza e lo stesso Renzi. Vorrei che Loro quattro e noi quattro avessimo potuto parlare liberamente. Da Quarantenni a quarantenni. (Certo, a Voi spetta sempre la maiuscola, perché siete formalmente più importanti di noi.) Vorrei che, mentre spalmavano di crema d’arachidi le fette biscottate “passe” (da tanto tempo che sono aperte), si fosse potuto discutere – come abbiamo fatto con i nostri due ospiti – di come valorizzare i nostri parchi nazionali. O di come cambiare le regole del lavoro. O di come emanciparsi dalle convenzioni. O di come saper ricevere e, soprattutto, saper dire dei “no”. O di come accudire i nostri sogni. Che a volte si chiamano figli. E di come poterlo fare con semplicità, con quel senso del “piccolo” che sa riempirti il cuore, con quel sorriso affettuoso che solo le cose limitate sanno trasmetterti.
Perché d’ora in poi io crederò solo ai quarantenni che pensano, parlano e si comportano da quarantenni. Un quarantenne che si comporta da ottantenne, per me, socialmente costa il doppio. E umanamente vale la metà.
E questo è il punto, dobbiamo cambiare anche il nostro modo di concepire questa gente.
Non sono affatto più importanti di noi, tanto meno formalmente.
Dobbiamo ricordarci (e ricordare loro), specie negli e con gli atteggiamenti quando ci imbattiamo in uno di loro, che sono al nostro servizio, della comunità che li ha onorati eleggendoli.
Questi devono, o dovrebbero, svolgere un servizio pubblico, una missione e noi siamo, e dovremmo atteggiarci ad essere, i “loro padroni”, non i servi, i paggi e cortigiani vari.
Questi, ogni volta che si imbattono in un cittadino, dovrebbero avere quell’atteggiamento di reverenziale rispetto e non di altezzosa arroganza.
Dobbiamo cambiare noi verso di loro, ignorandoli in pubblico, con l’indifferenza e senza riservare loro alcuna attenzione o precedenza, a cominciare dai teatri, stadi et similia.
Mi viene in mente una frase di Montaigne (da i “Saggi”):
Da un ultracinquantenne.
Ciao Gusavvo… hai perfettamente ragione: il mio “onorarli” con la maiuscola era platealmente ironico. E’ l’unica forma di rispetto che gli riconosco, infatti! Tant’è che, subito dopo nel post, non arrivo a invitarli a “cagare insieme a me”, ma a colazione invece sì: a mangiarsi cioè le fette biscottate “passe” con noi comuni mortali. Li stavo prendendo un po’ in giro. Non meritano altro. Credi che io, umanamente e in molti casi anche professionalmente, abbia dei sensi di inferiorità rispetto a quella gente lì?
Se così fosse, questo blog nemmeno esisterebbe! 😉
La Boschi è una trentenne, non una quarantenne, il ché rende tutto, se è vero, ancor più grave. Se i giovani li han messi su i vecchi pazienza: succede sempre così. Ma se quei vecchi (anche un po’ Grillo, eh, nonostante i Cinque Stelle siano in genere dotati di buona autocoscienza) continuano a “teleguidarli” sono solo facce giovani per idee vecchie