Parto da un articolo di Paolo Ermani comparso sul quotidiano online “il Cambiamento” del 30 marzo, riferito alla campagna promozionale di Carrefour.
Guardatelo con attenzione. E guardate con attenzione l’espressione dell’uomo che si trova in una sorta di estasi d’amore immerso in un letto di prodotti a marca Carrefour ma non solo. L’uomo è nudo, infatti, con gli occhi chiusi come a concentrarsi e a voler maggiormente godere di quelle sensazioni. Il viso rilassato, felice, appagato, le mani ancora alla ricerca di calore. Bello, vero? Bellissimo.
Quell’espressione, quell’appagamento, quelle sensazioni che lui esprime così efficacemente, però, può darli solo il calore e la relazione con un altro essere umano. Lui è con gli occhi chiusi quasi ad immaginare il piacere di un abbraccio e invece l’abbraccio e il calore è quello di una montagna di prodotti che presto diventeranno spazzatura. Quasi l’eccitazione di comprare avesse sostituito un’eccitazione sana, tutta naturale e piena di calore, umana, essenziale, autentica. Guardatelo quell’uomo, è disperatamente solo. Solo a consolarsi con un calore surrogato e di plastica che non esiste.
E’ come se all’amore si fosse sostituito qualcos’altro. E’ come se dell’amore non avessimo neppure più bisogno. C’è qualcos’altro che può sostituirlo, più a buon mercato, sottocosto addirittura, mentre l’amore richiede forza, apertura e autenticità. Se facessimo uno zoom sul suo viso e solo sul suo corpo ci chiederemmo: dov’è l’essere umano che ispira quelle sensazioni e quel benessere? Dov’è la donna in questo spot? Non c’è. E’ sostituita da due bottiglie di passata di pomodoro che allargando l’immagine diventano quattro, poi sei, poi dieci.
L’immagine ricorda quella splendida di The American Beauty. L’uomo è ad occhi chiusi. E, del resto, se disgraziatamente aprisse gli occhi correrebbe il rischio di realizzare improvvisamente e dolorosamente di essere finito, senza neanche accorgersene, in una realtà di rifiuti di plastica, lui stesso diventato prodotto da buttare. Disteso, sommerso, senza più difese, schiacciato dal suo peso e dalla spazzatura che lo ha sedotto, usato e poi gettato. In una discarica, badate bene, non in un letto di petali di rosa.
Alla fine dello spot la sensazione è raggelante: di freddo, distanza, smarrimento.
Questo è il secondo video:
Il primo piano è ancora dell’uomo. Nudo, estasiato, ancora ad occhi chiusi, perso nelle sue sensazioni. Solo su un carrello come se fosse una nave. Davanti a sé non c’è la donna che ci immagineremmo ma un prodotto, inerme, freddo, spigoloso, artificiale.
Ricorda molto la scena d’amore bellissima del Titanic. Anche qui l’amore, quello carnale, vero, profondo, intimo viene associato all’acquisto. Al posto della donna da abbracciare l’uomo ha un prodotto. Anche qui la donna, il suo amore, il suo calore, la sua emozione, il suo corpo e tutto quello che può esprimere è sostituito da un prodotto da acquistare. La storia d’amore di Jack e Rose del film durerà oltre il tempo e oltre la morte. Così sembra dire lo spot anche di noi. Stessa emozione, stessa sensazione, stessa felicità quando acquistiamo quei prodotti. La promessa è interessante e basta recarsi in un supermercato. Di tutto il resto non abbiamo più bisogno.
Il prodotto produce nell’uomo lo stesso benessere, la stessa estasi, direi, a giudicare dalla sua espressione, del contatto fisico e spirituale che può dare il contatto con una donna. Del resto basta chiudere gli occhi e immaginare. L’uomo ha gli occhi chiusi, ha perso totalmente il contatto con la realtà.
Qui il carrello è la nave, iI Titanic che affonderà da lì a poco. Il carrello Titanic affonderà, quindi, tirandosi dietro tutto ciò che ha dentro e trascinando a fondo anche l’uomo che vi si affida ad occhi chiusi, sicuro, felice e fiducioso, completamente ignaro e inconsapevole.
I creativi si saranno resi conto che mai metafora fu più profetica di questa?
L’amore, l’emozione, il calore umano, sono perfettamente sostituibili da qualcosa che possiamo comprare al supermercato. Questo sembra essere il messaggio.
Ma quando si arriva a questo, che rimane, mi chiedo? Qual è il limite oltre il quale non si può andare? E soprattutto, quando abbiamo perso la sensibilità a tutto questo, cosa rimane, mi chiedo, di noi?
Questo post viene simultaneamente proposto anche dal quotidiano online “il Cambiamento”.
Preferisco prendermi uno spazio “apposito”, per riprendere i punti sollevati da Paolo e Andrea.
A quest’ultimo faccio notare che la seconda definizione che lui dà di arte, è “in vigore” solo dal Settecento (guarda caso proprio dall’Illuminismo e a causa di esso…), perché fino ad allora la produzione artistica aveva sempre uno scopo; anche se non necessariamente legato al mercato, sia chiaro.
Perciò preferisco dare di arte – in generale e per qualsiasi settore – questa definizione: “L’Arte è un sistema di comunicazione, che veicola un messaggio con un linguaggio non convenzionale”.
Con ciò ho già risposto, in parte, anche a Paolo: perché è chiaro che anche uno spot pubblicitario rientra in questa definizione; che il suo contenuto ci piaccia o no, è affar nostro e dipende dalle nostre sensibilità, cultura, dignità (certo), ecc. ecc.. Ma Leni Rifenstahl (che fece i migliori film di propaganda del III Reich) era una regista di prim’ordine, come riconosciuto già all’epoca da tutto il mondo.
Quindi molti creativi che lavorano alla pubblicità sono artisti notevolmente dotati; tant’è che molti “artisti notevolmente dotati” hanno fatto e fanno opere di pubblicità e propaganda. Fattene una ragione, Paolo: anche perché le aziende non spenderebbero tanto per loro, né loro chiederebbero tanti soldi per il loro lavoro. Piaccia o non piaccia, se parliamo di mercato i soldi sono il metro di misura della validità di qualsiasi lavoro: non per niente si spendono certe (folli) somme per certi artisti.
Poi, certo, c’è il discorso della dignità: e qui la dignità la si ha oppure no, a prescindere dall’essere o non essere artisti. Ognuno fa le sue scelte e almeno in seguito i conti con la propria coscienza, si spera. Però se parliamo di coscienza, dovremmo chiederci se quasi tutti i grandi del Quattrocento fiorentino erano degli artisti: visto che i Medici arrivarono al potere (come molti altri dei grandi Signori di quel periodo storico), dopo quella che oggi definiremmo senza mezzi termini una guerra di mafia. E naturalmente gli artisti lo sapevano bene…
Ciao Alberto,
mai sentito parlare del concetto di dignità umana?
Il parallelo fra autentici artisti con gente che l’arte non sa nemmeno cosa sia e sfrutta ogni più basso istinto umano per vendere prodotti inutili che devasteranno il pianeta e chi lo abita, è uno dei parallelismi più assurdi e senza senso che abbia mai potuto leggere.
Se farsi delle domande e analizzare questi autentici scandali contro la dignità umana è ozioso, vuol dire probabilmente che stai perdendo i punti cardinali dell’esistenza. E meno male che c’è chi ancora se le fa delle domande e ancora quella dignità non l’ha persa ma la vuole mantenere ben alta per non farla sommergere dall’immondizia mentale e non, dei cosiddetti creativi.
I maggiori artisti non sono affatto i creativi, informati Alberto, l’arte è una cosa seria.
Paolo Ermani
Bello scambio, fra Alberto e Paolo. Mi intrometto, oltre che per ricordare a tutti che – in caso d’incendio – il 115 è il numero dei pompieri ;-), per provare a dare il mio modestissimo contributo almeno nella definizione di “opera d’arte”.
Come ho tra l’altro argomentato pochi giorni fa nella recensione all’ultimo libro di Simone Perotti comparsa proprio sul quotidiano “il Cambiamento”, credo che, per essere tale, un’opera d’arte debba rispettare due requisiti fondamentali (notare che sono condizioni necessarie, ma non sufficienti):
1) non esaurirsi, in chi la contempla, quando se ne conclude l’esperienza percettiva (lasciare cioè uno strascico emotivo e/o cognitivo, anche dopo che si è interrotta l’esperienza sensoriale con essa);
2) non poter rispondere alla domanda “a cosa serve?” (l’arte deve prescindere da ogni connotazione strumentale).
Stanti queste due personalissime condizioni (che, lo ripeto, sono necessarie ma non sufficienti), credo in tutta onestà che le due clip commentate in questo post da Marìca abbiano ben poco di artistico: l’unico strascico che mi hanno lasciato non era infatti né emotivo, né cognitivo, ma… gastrico: mi hanno fatto vomitare. 😉
Fate l’amore con il sapore
Vedendo lo spot (tristissimo in tutti i sensi come dici tu, Marica) mi domando: perché hanno scelto quell’attore? E non la solita donna attraente e mezza nuda come “normalmente” si usa per vendere, per esempio, una vernice antimuffa? Secondo voi?
Ciao Annalisa,
fai, secondo me, una domanda molto interessante. Non lo so, in realtà, però posso provare a ragionarci un po’ su. Ho visionato molti spot pubblicitari ultimamente di questa catena di supermercati. E ho visto che è come se si volesse un contatto sempre più ravvicinato col potenziale consumatore fino quasi a volerlo far identificare totalmente con il marchio, col prodotto, con l’azienda. Probabilmente è più facile identificarsi in questo modo. Un’altra cosa che ho notato dai commenti ai video che ho visionato è che la maggior parte dei commentatori era estremamente divertita e pubblicava post di risate e approvazione. E prendere in simpatia uno spot credo sia già molto per chi vuole assicurarsi clienti e fan…
Esatto, Marica.
Ti ricordo che l’essere sovrappeso (se non addirittura obesi) è uno dei problemi che affligge la società occidentale e che questo è frutto dell’iperconsumismo, oltre che di una generale “cattiva educazione” nei confronti del cibo in genere.
In questo caso lo spot vuole far diventare questo difetto un punto di forza: visto che per chi l’ha commissionato, un consumo acritico ed eccessivo non è certo un male.
Ah, i bei tempi andati, nella società indiana! Là il “modello estetico ideale” (sia maschio che femmina) era in leggero sovrappeso, per rimarcare la differenza fra chi è benestante e chi non lo è… Anzi, a vedere i film made in Bollywood, mi sembra che quel modello tenga duro ancora.
Anche io ci ho pensato abbastanza. Sembra quasi voler rafforzare quello che dici tu: un uomo così (grasso e ridicolo, ce lo vogliono far apparire) forse non puó “avere” una donna vera. Ma tanto che se ne fa, puó sempre appagare tutti i suoi sensi nell’ “avere” infinite alternative di consumo. Se ci mettessero una bella donna, o un giovanotto muscoloso, o anche una mamma coi figli, non farebbe lo stesso effetto, no?
Quante anime sole ci sono in giro che forse, nascondendosi dietro una risata per questo spot, poi in fondo si immedesimano. Beh, oggi sono un po’ giù di morale. Vado al supermercato!!
Ma come si fa a combattere questa cascata di messaggi? Come si fa, per esempio, a proteggere bambini e adolescenti da questo genere di cose?
Esatto, Annalisa; e pensa non solo a quelli che sono già così, ma a quanti vorrebbero – quelli che hanno pensato questo spot – che lo diventassero…
Come si fa a proteggere bambini e adolescenti da questo sfacelo? Con l’esempio! Col far imparar loro la logica della consequenzialità “causa – effetto”! E non solo riguardo alla pubblicità, ovviamente, cosa forse più difficile che in tanti altri ambiti, ma usare queste strategie in tutte le occasioni possibili.
Poi saranno loro a scegliere, come logico; ma intanto, agendo così, avremmo ottenuto due risultati: ci saremo salvati la coscienza da inutili sensi di colpa; e avremmo dato comunque loro dei punti fissi, dai quali ricominciare nel caso si rendessero conto di aver imboccato una via sbagliata.
Un modo per proteggere i bambini è sviluppare in loro, o almeno provarci, un minimo di senso critico. Parlarne, osservare insieme, analizzare, far vedere. Non è facile, certo. Siamo bombardati continuamente e non abbiamo sempre la voglia, la pazienza o il tempo di fare tutto. Questo, però, è assolutamente necessario anche perché per i bambini c’è tutto un mondo pubblicitario a parte appositamente studiato, subdolo e pericoloso. Soprattutto se sono lasciati da soli. Si prova e vedo che, spesso, si riesce.
bravissima marica hai centrato bene il tema… roberto
Quello che può sembrare una pubblicità simpatica, una ironia di scene d’amore di film famosi traslati in chiave consumista, all’occhio poco edulcorato, ma attento alla psicologia che vi è sotto, non sfuggono per quello che sono: le espressioni di una visione mercantile, su cui la merce assume un valore altro e alto, nobile come nobili sono i sentimenti, l’amore. L’estasi espressa dal personaggio è meno innocente di quello che appare, e questo non è un discorso moralista e bacchettone. Gli spot sono lame sottili, aghi che si insinuano nel modo di pensare e diventano costrutto del pensiero comune. Accade a chi è adulto e ha visto fasi ancora più innocenti e meno invadenti di quelle attuali, ma un giovane vive già questa realtà e l’assimila anche acriticamente senza accorgersi. E accade, semplicemente accade. Il “consumare” come modello e fine ha portato a consumare anche i rapporti umani. Ma quello che rimane non è il mondo dorato del tutto è acquistabile (anche in comode rate), rimane la profonda solitudine dell’anima, rimane una società di uomini e donne, ragazze, ragazzi, vecchi e vecchie e ancora bambini e bambine, soli…..circondati dagli oggetti che come anestetici affidiamo la speranza di non soffrire.
Sì, Matteo, sono d’accordo sul profondo senso di solitudine che dici e che rimane addosso dopo aver guardato quegli spot.
Da creativo, posso dirti questo:
1) Chi ha fatto quegli spot è un grande.
2) Può darsi che lui si sia reso conto della metafora “carrello – Titanic”; ma è un professionista e ha fatto le sue scelte a monte. Triste, se vuoi, ma è così. E non credere che succeda da adesso.
Se sono un professionista, la mia scelta è sempre a monte del lavoro che faccio: cioè, esercito il mio “libero arbitrio” al momento di accettare o no la commessa. Raffaello, nel suo capolavoro delle Stanze Vaticane, fece un panegirico della Chiesa di Roma che meglio non si può; ma lui non poteva non sapere, che i Papi avevano appena lanciato a tutta forza l’orrore della Controriforma. Idem per Michelangelo; che però – essendo in pratica intoccabile – si prese il lusso, nella Cappella Sistina, di metterci dentro un bello “spot” pro-Martin Lutero.
Ma noi andiamo a Roma e guardiamo questi capolavori colmi di stupore e di ammirazione…
Il potere adesso è del mercato; e il fior fiore degli artisti lavora nella pubblicità, invece che ad affrescare palazzi e chiese.
3) Spostiamoci sul target (che, per quegli italiani che non hanno bisogno di usare l’inglese a sproposito, per far finta di essere colti, sarebbe lo spettatore dello spot): se è sveglio, avrà notato quello che hai scritto; se no, no. Magari non correrà alla “Carrefour”; magari si ricorderà di quei film che dici, ma non andrà oltre.
Spiace, Marica, ma non c’è nulla di nuovo: o ti sei svegliato, o dormi. Nel qual caso, qualsiasi cosa (anche la puntura di una zanzara), può darti il la, per cominciare a farti qualche domanda. Mai sentito parlare del concetto di “upa guru”?
Tu ed Ermani avete detto bene la vostra, su questo tema; ma sono purtroppo domande e considerazioni oziose, all’interno dello stato di fatto della società italiana. E occidentale, purtroppo, una volta tanto.
Non sono sicura, Alberto, che si tratti di domande e considerazioni oziose, cioè inutili o inconcludenti. Penso, invece, che farsi delle domande, osservare e condividere le proprie considerazioni e punti di vista sia sempre molto utile. Qui non si tratta solo di vendere un prodotto ed usare i “migliori artisti” che ci siano sulla piazza, cosa che, secondo me, potrebbe anche essere condivisibile. Qui si tratta del “come” farlo e con quali mezzi. Si tratta di capire se si può davvero tutto. Si tratta di essere molto vicini al superamento del limite possibile. E non è un caso che ci si avvicini a sentimenti o fenomeni che sono o dovrebbero essere privatissimi, intimi, personali, profondi: l’amore, la morte, il bisogno di calore e di affetto, il dolore. Come se il resto non bastasse più, come se si dovesse andare oltre, spingersi fino al limite e superarlo. E stiamo perdendo la sensibilità, man mano che il prodotto da vendere prende spazio, tutto il nostro spazio. Anche quello che non dovrebbe mai essere invaso. Non ce ne rendiamo neppure più conto, ci siamo abituati o, magari, pensiamo anche che sia giusto così o che sia inutile parlarne. Io, però, la penso diversamente.
Forse mi sono spiegato male.
Non ci vuole molto a capire, che chi produce spot del genere, è fuori etica.
Dal nostro punto di vista, tutto quello che scrivi anche nella risposta qui sopra, è giusto; però lo trovo poco utile: noi abbiamo sufficiente sensibilità, per capire che ci sono dei limiti, quale siano la natura e l’importanza dei sentimenti, e così via.
Dall’altra parte abbiamo persone che, essendo appunto fuori etica, a farsi certe domande non ci pensano neppure: un dialogo fra sordi, insomma.
Ho scritto “poco utile” e non “inutile”, perché c’è sempre la possibilità, che qualcuno che “da estraneo” entra in questo sito, riceva una scossa e inizi appunto a porsele, queste domande. E siccome uno degli scopi del sito – correggimi Andrea, se sbaglio – è questo, allora non mi faccio molte illusioni, ma speriamo pure.
Non sbagli: uno degli scopi del sito è quello.