Essere Anziani

Ok, questo lo dedichiamo alle scuole di formazione manageriale e alle nutritissime schiere di personal-trainer, counselor, life-coach, mental-coach e affini, che – costantemente affamati di succulenti stimoli – vengono periodicamente qui (senza dare troppo nell’occhio, naturale…) per sbirciare idee e tendenze già accuratamente selezionate e preconfezionate da chi, avendo già conosciuto e maneggiato quella roba lì da mooolto vicino, sta adesso tentando di battere strade nuove e inesplorate (anche se un po’ scomode).

Una di queste strade ha un nome ben preciso. Ha la sua grammatica, ha i suoi profeti e ha la sua – brrr! – mission. Questa via si sbarazza innanzitutto della figura del Leader, che sostituisce con quella – assai più generativa – dell’Anziano:

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E ora… mano a Google. Ma soprattutto, mano al telefono. 😉 Per contattare il responsabile della pianificazione formativa nella vostra struttura e schiarirvi la voce: “Ti mando il link di un tale che parla di una specie di nuova frontiera della leadership: riesci a darci un occhio e farmi sapere che roba è? E’ quasi sicuramente l’ennesima cazzata, ma non si sa mai…”

Sarebbe molto figo che il vostro CEO si comportasse da Anziano, eh? E quanto sareste avanti, se i primi riporti, i secondi, i terzi e così via… facessero altrettanto? Sarebbe davvero un bel colpo se la cultura organizzativa della vostra realtà si arricchisse con questo modello di leadership, non trovate? Se non altro, perché sareste tra i primi.

Ma potrebbe anche essere il caso di lasciar perdere. Perché… sì, diciamolo: questa via potrebbe non condurre a un aumento immediato della bottom-line del vostro conto economico. Potrebbe far crescere la consapevolezza nella vostra comunità di persone. Potrebbe farlo in modi… imprevisti. Incontrollabili. E dunque estranei alla corporate-identity che avete speso anni di fatiche e montagne di soldi per affermare.

Come tale, è materiale altamente infiammabile. Sì, davvero molto meglio lasciar perdere e tornare in lidi tranquilli…

———

info@llht.org
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16 risposte a “Essere Anziani

  1. Il tema è molto articolato e la discussione è intensa, densa, appassionata ed appassionante. Forse arrivo lungo ma ci tengo a lasciare questa riflessione/provocazione di carattere personale ma credo condivisibile: cosa significa trovare le risorse dentro di noi, ergo, cambiare il nostro mondo interiore e quindi il complesso di percezione/azione della e nella realtà che ci circonda se non salvare noi stessi? Ed in fin dei conti salvare noi stessi non significa salvare un pò il mondo? Perlomeno quella porzione di esso con cui abbiamo interazioni abbastanza stabili e durature, seppur transitorie, da poterlo definire “il teatro della (nostra) vita umana, e quindi simbolo della vita stessa”. Alla domanda “ma tu vuoi salvare il mondo” bisognerebbe incominciare a rispondere lucidamente, orgogliosamente e coerentemente, forse anche presuntuosamente: sì, un essere umano alla volta. Senza la paura di essere scambiati per utopisti perchè altrimenti scollocamento, downshifting, resilienza, etica etc… rischiano di diventare parole vacue e vane. Semplicemente il mondo si salva con una metrica diversa e se non saremo noi a salvarlo sarà lui a salvarsi da solo, trovando le sue “energie interiori” ed annientandoci ( Leibniz riteneva che il mondo presente fosse il migliore di tutti i mondi possibili, “la macchina” del mondo, l’universo considerato nella sua organizzazione e struttura perfetta). E qui, Andrea, arriva il pezzo forte, la tua domanda: esistono dinamiche diverse per coinvolgere nel cambiamento (salvezza) un numero sempre maggiore di persone in un tempo sempre più breve (aggiungo io)? Qual’è il vero catalizzatore del cambiamento individuale e collettivo? Esiste un denominatore comune? Credo sia appunto il conflitto. In fin dei conti è un conflitto interiore che ci spinge a sondare i territori inesplorati del nostro animo. E sono i conflitti esteriori, oggi globali, che ci spingono e ci spingeranno con forza crescente ad interrogarci sulle nostre scelte ed interazioni.
    Un caro saluto e grazie a tutti per gli stimoli.
    Lorenzo

  2. Riparto da qui, Flavio, perché ci sono troppo commenti annidati. E provo a riassumerti cosa intende Mindell per conflitto (mi scuso con gli esperti e li invito a intervenire, se appaio approssimativo).
    Il conflitto è lo spazio in cui le relazioni umane esprimono al meglio ciò che c’è sotto. Viviamo in una società in cui il costume ha soppresso il conflitto praticamente da ogni ambito relazionale e comunicativo. Le relazioni sono ormai governate da consuetudini in cui le divergenze sono attutite da convenzioni comportamentali che evitano ogni forma di attrito (pensa all’odioso political correct), a esclusivo beneficio delle fasce egemoniche della società, le quali si trovano così ad aver meno tensioni da gestire. Salvo poi, quando questi attriti inevitabilmente esplodono, causare danni molto maggiori. Una sana (e ben facilitata) conflittualità fra le parti consentirebbe invece di far emergere le reali posizioni in campo, offrendo l’opportunità di una convergenza prima dello scoppio di una crisi ben più grave.
    Quando non è interiore (per il quale servono ben altre terapie), lo spazio del conflitto diventa quindi una risorsa preziosissima per sintonizzarci reciprocamente, facendo prevalere il ruolo della comunità su quello del singolo.
    Ecco, è una spiegazione che ho provato a darti per sommi capi: spero si possa intuire in che cosa, a mio avviso, c’è una sostanziale differenza con le tecniche che mirano invece a far evolvere il soggetto “in funzione” del contesto, e non “insieme” ad esso. Ciao

    • Ora è più chiaro. In effetti, esiste una tendenza, all’interno delle pratiche di coaching, tese all’adattamento. dell individuo anziché alla sua espressione e liberazione. Ma non è più così attuale, almeno, non fra chi questo lavoro lo fa seriamente. Negli ambiti aziendali, dove il corso è erogato dal datore di lavoro, la dottrina ufficiale non può che essere: se il tuo posto non ti piace, troviamo il modo di fartelo piacere. Questo accade. Ed è micidiale.
      D’altro canto un coach serio (e ne esistono 🙂 non dirà mai questo ( o solo questo). Conosco personalmente chi, dopo un corso di formazione in Fiat (per me l’Inferno in Terra) con coach evidentemente dotati di coscienza, è stato posto di fronte all’identificazione dei propri valori più autentici e ha scoperto di trovarsi nel posto sbagliato, si è licenziato e ha cominciato a vivere. Ed è successo grazie all’intervento di un formatore aziendale, pensa. la persona in questione me ne parlava con enorme gratitudine.
      Questa società ha un grande bisogno di riscoprire il conflitto come lo intende Mindell, non ho dubbi su questo.
      Mi spiego anche il perché del’impostazione di molti tuoi testi, dove mi pare che il conflitto venga alimentato ad arte, direi con foia. Quanto a questo, le perplessità restano tutte, ma è questione di scelte.
      Ciao

      • Io Mindell lo sto approfondendo (e applicando) da pochi mesi: vi ho ritrovato molte conferme a quello che secondo me dovrebbe essere il ruolo di un efficace sensibilizzatore sociale. Il mio atteggiamento tendenzialmente assertivo – con qualche sporadico sconfinamento nella provocazione (foia? ma su…) – è esattamente funzionale a questo. A far cioè prendere coscienza delle contraddizioni, stimolando al tempo stesso – ed è questo l’aspetto prioritario – una re-azione personale. Non so se questo possa essere definito “metodo”. E’ forse più propriamente uno “stile”. 😉 Ciao

        PS. A proposito, come promesso cito il link del tuo ultimo post sul tuo blog, che ho trovato particolarmente efficace: http://flaviotroisi.com/index.php/unioni-incivili/

  3. Come autore di un libro pubblicato in una collana denominata i “Libri da Leader”, desidero intervenire. Il concetto di leader espresso nell’estratto che pubblichi è parziale, capzioso, incompleto. Ti propongo quello di Anthony Robbins, che io abbraccio totalmente: il leader è prima di tutto un SERVITORE.
    E a proposito di Anthony Robbins. Questo GENIO (perché tale è) ha formulato tesi estremamente avanzate, versatili, applicabili in pressoché ogni contesto, compreso il downshifting. Ha scritto libri ricchi di contenuti utilissimi che hanno venduto milioni di copie in tutto il mondo (sarà un caso?). Non condivido diverse sue idee, soprattutto quando parla di denaro, ma è un GIGANTE in termini di formazione, comprensione della natura umana, problem solving, facilitazione, risoluzione del conflitti (recuperati il video di cosa fece il 9/11)… Quanti suoi libri hai letto, quanti seminari hai visto (in particolare le strategic interventions con la psicoterapeuta Cloe Madanes), quante persone conosci che hanno lavorato con lui e possono dire: “Mi ha aiutato davvero a cambiare vita?”
    Mischi i life coach con le scuole di formazione manageriale, con i docenti, con i responsabili HR. Così è troppo facile. Quello è un settore pieno di fuffa, la maggior parte dei coach mi fa ridere. Ma anche la maggior parte degli artisti. Dunque?
    Individuare un bersaglio e ridicolizzarlo o abbassarlo allo scopo o comunque con l’inevitabile risultato di elevare se stessi è una tecnica di comunicazione applicata soprattutto nei contesti che stiamo cercando di superare, mi sembra. Rende tutto più accattivante, popolare, ma non rende giustizia.
    Persone che come noi ambiscono a contribuire al risveglio e al cambiamento di rotta di questo mondo impazzito penso che dovrebbero prima di tutto esercitare l’umiltà di porsi in ascolto di Maestri che tali obiettivi se li sono posti decine di anni prima di noi e ancora oggi, nelle loro umane imperfezioni, tracciano un solco che, a volte inconsapevolmente, seguiamo tutti. Anche tu, che giustamente proponi nei tuo incontri la necessità di uscire dalla propria zona di comfort. Gente come Robbins lo fa da decenni e, credimi, meglio di te, me e migliaia di volenterosi principianti che hanno il nobile e sincero desiderio di contribuire al cambiamento. Noi possiamo aggiungere alle loro idee altri concetti: la misura, il limite, interdipendenza…
    Ma al confronto di questi pionieri siamo nani.
    Se l’anziano vede un maestro perfino in chi ha creato il problema, come possiamo noi non vedere un maestro in chi ha creato tantissime soluzioni? Perfino i detestabilissimi responsabili HR…
    PS. Nel video, Arnold esprime concetti correttissimi, quale che sia la tua idea di successo! O possiamo negarlo?

    • Condivido quasi ogni virgola del tuo commento (che mi aspettavo), Flavio. Anche quando dici che mescolo pressapochisticamente i divulgatori e i fruitori di un’idea. L’ho fatto intenzionalmente, Flavio. A me interressa… l’idea. Non i suoi utenti.

      Con questo post ho semplicemente lanciato un sasso nello stagno. Con l’obiettivo – certamente presuntuoso – di immaginare anche in questa disciplina un superaramento delle logiche attualmente dominanti. E se l’unità di osserv/azione non fosse l’individuo, ma il gruppo? Se il fulcro su cui appoggiare la leva del cambiamento non fosse la consapevolezza del singolo, ma quella di una cerchia più allargata?

      Vedo molte più affinità tra il video di Robbins e quello di Schwarzenegger (perdonami l’eresia, ai tuoi occhi), che non tra l’idea di leadership propugnata da Robbins (e da molti professionisti come voi) e l’approccio sociocentrico di Mindell. Motivo? I due leader si rivolgono, in modi e tempi diversi, alla persona. L’area di manovra è il solo approccio cognitivo-comportamentale. Per loro (così come per ogni guru e per ogni ciarlatano dell’empowerment), il canale di sbocco è sempre e solo il soggetto. Le risorse attivabili sono esclusivamente dentro di “sé” e vanno solo riportate a galla.
      L’approccio innovativo sintetizzato in quell’estratto (così nuovo che si rifà alle tradizioni sciamaniche…) mi sembra invece interessante perché tenta di superare la dimensione ego-centrica del cambiamento desiderabile. Ma è solo una mia impressione, eh.

      Non ridicolizzavo nessuno, però (se non le scorciatoie aziendali). Cercavo solo di accendere una lucetta su un possibile, nuovo punto di vista. Perché, essendo solito (e divertendomi un mondo) a mettere in discussione persino me stesso, non ho proprio alcuna remora a farlo con chiunque altro. Persino i guru.

      • Da dove dovremmo estrarre le nostre risorse, se non da dentro? Mi rispondo da solo: dalle connessioni, dai rapporti di interdipendenza fra gli elementi. occorre senza dubbio passare a un modello che comprenda i flussi e gli scambi di energia fra gli elementi dei sistemi complessi, ma quello che intendo è che questa va fatto superando il pensiero dicotomico che pone i nuovi metodi contro i vecchi metodi. Non separazione, ma integrazione. Si lavora sul singolo e sul gruppo, sull’insieme.

        • Andrea, non credo. Tu dici: “E se l’unità di osserv/azione non fosse l’individuo, ma il gruppo?” In quel MA c’è il nodo.

        • Tu chiedi: “Da dove dovremmo estrarre le nostre risorse, se non da dentro?”
          Al di là del fatto che in quel “nostre” c’è già la risposta (io parlavo genericamente di “risorse attivabili”, senza collocarle in nessun luogo definito), la mia risposta è la seguente:

          Le risorse che servono a noi vanno necessariamente estratte dentro di noi, ma le risorse necessarie al contesto vanno ricercate altrove. E, precisamente, nel conflitto.

          Credo che questo possa risolvere una volta per tutte quella che è ormai diventata l’osservazione che mi sento rivolgere praticamente da chiunque. E che suona più o meno così: Ma tu vuoi salvare il mondo?

          Ovvio che chi lancia dei messaggi così indigesti (“dardi infuocati” li ha recentemente definiti un’amica) si attira addosso di tutto. Credo di avere gli anticorpi, certo, ma non è questo il punto. Il punto è che quella domanda è… legittima! E a nulla servono le massime Gandhiane stampate sulle t-shirt. Possiamo esserlo finché vogliamo, il cambiamento che vogliamo vedere nel mondo. Ma la spiacevole evidenza è che neanche Gandhi lo ha purtroppo cambiato, il mondo!

          Allora? Allora diventa valida la “solita” replica (quella che ho messo nel bandone FB, per intenderci): che non dobbiamo cioè cambiare il mondo fuori di noi, ma quello dentro. Egoistico? Forse. Ma in questo – te ne do atto – i guru della leadership sanno fare benissimo il loro onesto mestiere. Perché, come detto, applicano metodi cognitivo-comportamentali: minima spesa, massima resa. Tutti contenti e avanti il prossimo.
          Ma la domanda che mi frullava in testa e che ho tentato (senza riuscirci) di condividere coi lettori nel mio post scandagliava una possibilità: E se esistessero dei metodi che superano i cliché finora adottati?

          Io non mi lego MAI mani e piedi a meccanismi e stereotipi consolidati, come a volte – in tutta onestà – mi dai l’impressione di fare tu. Robbins è un genio? Ok, lo è. Ma lo è in una porzione limitata di tempo e di spazio. Anche lui farà il suo tempo. Gandhi era un genio? Certo. Georgescu-Roegen? Pure. Mindell? Come no! Ma sono tutti interpreti magistrali del loro spirito del tempo. Che è quanto di più variabile esista.
          Ho letto il suo libro, come sai: è uno dei due/tre libri letti in vita mia che mi hanno letteralmente cambiato le prospettive con cui guardare al futuro. Come tale, ne ho condiviso qualche spunto. Tutto qui.

          Ciao e grazie come al solito per gli stimoli.

        • Che vuol dire… DAL CONFLITTO?Se affermi che dobbiamo cambiare il mondo dentro di noi, sei perfettamente allineato a quelli che chiami guru della leadership! Ma proprio identico. Cioè stai, accusando loro di sostenere quello che tu professi. Ed è corretto! Ma così stiamo girando in circolo. La questione non è affatto risolta. Ti chiedi se esistano “metodi che superano i cliché finora adottati?” Ne nascono ogni giorno, siamo tutti alla ricerca di questi metodi, ci sforziamo di svilupparli. O sono cliché? Chi può dirlo?
          Ci sono infinite possibilità di estrazione del significato dalla vita per una persona. Io mi chiedo se tutti questi metodi non possano convergere. E mi rispondo: moltissimi sì e questa è una ottima notizia. Di fatto già avviene, sta avvenendo. La permacultura, un altro di quegli stereotipi cui mi sono legato mani e piedi (ma su…) dimostra che la resilienza proviene dalla biodiversità. Ma non dal conflitto, anche se non ho capito cosa intendi, e quindi qui mi taccio.
          Grazie a te

  4. Ovviamente si tratta di un Anziano del tutto virtuale creato sulla carta per farci sognare mondi utopico. Soggetti del genere non ne ho mai incontrati. Alcune qualità descritte le ho viste espresse da alcuni personaggi ma in ambiti non legati al fare, alla produzione, al lavoro. Un’altra considerazione:non tutti sarebbero pronti per avere un ‘anziano’ è quindi questo finirebbe ucciso. Il problema non è l’anziano. E ‘ la collettività che non impara. La Storia ce lo riconferma continuamente quando alcuni Esseri Saggi hanno buttato un seme. Sono rimasti dei semi!

    • Alcune collettività praticavano (e tuttora praticano) con successo un modello di coesistenza basato su questi principi. Dunque, non mi rassegnerei cosi facilmente, gettando la spugna solo perché “la collettività non impara”. Diciamo che, al giorno d’oggi e in particolare qui in Occidente, riceviamo continuamente sollecitazioni che ci distraggono e ci allontanano da percorsi virtuosi. I credo visceralmente nella forza dei modelli. Così come dei modelli sbagliati, anche di quelli giusti. Si tratta solo di individuali, conoscerli e… divulgarli.
      Ciao e grazie del tuo commento

  5. Per come hai detto tu, le organizzazioni oggi hanno questa forte identità da corporate da difendere, promuovere o meglio, passare come la sola verità costituita ad un gruppo di persone in cerca di identità e di riconoscimenti da sfoggiare dentro e fuori di lì. Non sono Mario, Lucia o tal dei tali, loro sono il titolo che l’azienda ha dato loro agli occhi del mondo e lo difendono col coltello tra i denti, con inganni e sotterfugi, perchè se togli loro questo titolo hai tolto loro quella che credono la loro identità. Figuriamoci quindi se potrebbero mai agire minando il terreno su cui fonda la loro vita, giammai! Rischiare di essere una voce fuori dal gruppo, sai bene cosa comporta in organizzazioni del genere. Avere una propria personalità/identità non è proprio cosa per organizzazioni simili.
    Non te l’ho mai chiesto, ma sono certa hai visto il film The Corporation (2003). Assai istruttivo.

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