Ho rubato la mia vita

La leonessa è a caccia. E’ nell’aria. Le antilopi l’hanno sentita. Basta il momento giusto. Una corsa decisa, concentrata, veloce. Stop. Morte. Fine. Le antilopi intorno sembrano neanche distratte. Continuano a brucare come in un eterno scorrere di attimi di presente.  La memoria serve appena.

Ieri. Salaria. Ore 12. Verso casa. Verso fuori dalla città. Salaria è un mondo “tra”. Quella parte di strada che si lascia dietro brandelli di Roma. Un po’ slabbrata, sporca, non definita, sprofondata nelle sue buche di asfalto bollenti. O ghiacciate. Dipende. Salaria è i suoi cavalcavia di cemento armato che si litigano l’esistenza e il fiato con quei quattro platani deformi che non si arrendono al grigio e ne abbracciano i piloni, si adattano ai guardrail, si accasciano su se stessi ormai malati, indeboliti dal chiasso e dal veleno.

Salaria è scorrimento veloce, non esisti da fermo, non puoi neanche rallentare a guardare le famiglie sotto il ponte, con il loro divano sfondato e il letto sfatto di smog. Con la loro routine di sonni e risvegli rubati al traffico.  Con le loro suppellettili rinate dai nostri rifiuti spreconi e distratti.

Destra per Fidene. Un sacco di spazzatura buttato sul ciglio della strada. Uno come tanti.  Mi giro di nuovo. Rallento. Si muove. Oddio. E’ un uomo. Stop dove non si può. Zoom. Tempo, coordinate, colori, fuoco. Giù. Prova ad alzarsi. Giù. Il fiume scorre. Guado. Arrivo. Lo aiuto. Su. Cade di nuovo. Il bastone non basta. Neanch’io basto. Abbraccio, parole, sguardi. Domande. Il fiume scorre.

Salaria. Il fiume di macchine scorre e tu non lo sai se non sei fermo. Perché il fiume sei tu. Lo sanno solo gli abitanti dei ponti, le ragazze vicino al fuoco che tracollano sui tacchi sgargianti coi capelli lisciati e la bocca rossa. Lo sanno i tassisti fermi ad aspettare e qualche bar sparso a rifocillare i clienti di strada. Lo sa il motel al riparo da sguardi indiscreti, lo sanno i morti ammazzati che dalle loro foto attaccate agli alberi ti guardano come se avessero sempre saputo.

Come si chiama? Sandro. Quanti anni ha? 75. E lei? Marica. Il suo corpo danza sulle note di un Parkinson andante. Sguardo fiero. Cade. Su. La mano. La accompagno a casa? No. Com’è arrivato qui? Non lo so. Forse… Chiamo qualcuno? No. Chiamo sua moglie? No. Chiamo l’ambulanza? No. Voglio stare solo. Cammino da solo. Torno a casa da solo.

Fuori dal fiume sei invisibile. Esisti se corri, se passi, indifferente, sparato via dalla realtà. Non ci sei se cadi a terra, non ci sei se provi a rialzarti mille volte, nessuno ascolta se chiedi aiuto, il rumore è troppo forte, la velocità ti percepisce appena.

E’ ferito? Un po’. Chiamo la polizia? No. Sì. No. Sì. Arriva l’ambulanza. Tanto non ci salgo. Va bene. Io rifiuto. Va bene. Dove andava Sandro? Come ha fatto? Come si è trovato qui? L’autobus. Da solo? Ho rubato una mezza giornata di vita, Marica. Sì, una mezza giornata di vita. Silenzio

Un uomo ci nota dal fiume. Si ferma ad aiutarci. Ci ha visto. Ha capito. Sgrida Sandro col suo accento romano sorridente. Come un figlio preoccupato. Parole per capire Sandro. Parole perché Sandro capisca noi. Sandro sale in macchina. Nicola lo accompagna a casa. Prima cade due volte. Mi sento ferita. Vorrei vederlo ancora.

Pronto Marica? Sono Nicola. L’ho portato a casa. C’era la moglie? Non lo so. L’ho aiutato ad entrare in ascensore.  Così è tornato da solo. Nessuno sa niente. Aveva rubato una mezza giornata di vita. La sua. L’ultima. Silenzio. Stop. Fine.

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Un famosissimo video dal profondo significato politico (da guardare tutto):

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