Lettera al mio amico e poeta F. d. R. (Roma, 29 febbraio 2014)
Caro F,
ieri passeggiavo e vedevo il brutto e l’orrore intorno a me. Ho attraversato la città e ho visto cosa ha fatto l’uomo di se stesso. Non una sola faccia felice sulla mia strada. Non una sola faccia attenta lungo la strada che mi portava ad ascoltarti.
Uomini buttati a terra, invisibili. Donne distratte nell’impeto folle, delirante e devastante degli acquisti. Esseri svuotati di dentro e involucri spenti a ogni angolo di strada.
E io ci sono passata in mezzo. Camion della polizia intenti a sorvegliare il nulla. Tutto fermo, tutto in movimento verso il nulla. E io camminavo. Ho camminato a lungo per venire ad ascoltarti, ieri.
Non so davvero cosa mi abbia spinto, perché questo interesse improvviso e chiaro. Quasi un riconoscersi, non lo so davvero.
Mentre camminavo stavo male. Perché la città non è più mia e non mi assomiglia più. In nulla. La plastica e la spazzatura delle nostre relazioni ci sta sommergendo. Non abbiamo più occhi né più cuore né più pelle per vedere e sentire.
Mi sembrava di essere io l’unica ieri ad andare nella mia direzione. Mi sembrava di schivare ogni persona come fosse un proiettile impazzito e pensavo già di scrivere qualcosa su queste sensazioni, questa tristezza e questo freddo infinito che sentivo mentre camminavo.
Quando sono arrivata e ti ho visto mi sono come risvegliata. Non mi aspettavo questo, F. Forse un po’ lo avevo intuito ma non ne ero davvero consapevole. Non mi aspettavo tutta questa bellezza. Non così violentemente offerta dopo un bagno di grigio disperato.
Non mi aspettavo di trovarmi a mio agio e mi sento a mio agio solo quando c’è più calore di quanto ne possa sopportare. Devo sentirmene un po’ sopraffatta. Come una calma che pervade, come una fonte a cui si arriva dopo la traversata di un deserto di cemento interiore. Quello che ho sentito intorno a me ieri, mentre camminavo.
Oggi ho recitato alcune delle tue poesie alla persona di cui sono perdutamente innamorata e che forse neanche sa quanto. Mi ha detto che sono belle e che scrivi come gli scrivo io. La cosa mi ha un po’ colpito ma, in realtà, molto di quello che c’è in quelle pagine è quello che ho sentito molte volte anch’io. In fondo come tutti quando raschiano il fondo delle loro sensazioni, quando vanno a cercare lo scontro tra il sentire e la parola e cercano di mediare un compromesso impossibile e vano. Ma necessario.
Così mi sono sentita ieri, F, quando ti ho incontrato.
Al ritorno e sulla stessa strada ho sentito tutta la pena per quella città allo stremo, per quelle persone non viste. Tutto il dolore l’ho fatto entrare dentro perché trovasse una via d’uscita e non mi disturbasse troppo nel mio tentativo di salvarmi un po’.
E’ questo che deve fare la poesia. Non pensi?
Questo avrei voluto dirti ieri quando sono andata via ma non mi sono uscite le parole.
Grazie, Alberto…
Una delle tante cose belle della poesia (te lo scrive uno del mestiere), è che funge da catalizzatore per la nostra sensibilità più profonda; e questo dove, come e quando meno ce l’aspettiamo; il che vale, tra parentesi, per qualunque arte praticata con professionalità.
Normale, Marica, che si verifichi un transfert fra chi scrive e chi legge, sulla base proprio della reciproca sensibilità; e di ciò che, interiormente, si è saputo cogliere nell’arco di tempo precedente all’incontro e alla lettura; arco di tempo nel quale i nostri sensi – e non parlo dei canonici cinque, che ci hanno fatto conoscere fin dalle elementari, pretendendo che siano gli unici – sono più attivi, che ne siamo coscienti o no.
Va bene così. Lieto che la poesia ti abbia dato questo. Non che non me l’aspettassi, visto il livello di sensibilità che dimostri parlando di quello che fai e più ancora, facendolo. Ma è comunque bello leggere le tue frasi: perché aiutano chi, come me, ha scelto questa strada in un Paese che considera l’ignoranza un valore aggiunto e sensibilità, cultura come fastidiosi optional.