Finzioni

Tra quelli che non capiscono e quelli che fingono di non capire, preferisco certamente i primi. In entrambi i casi, l’opzione più rassicurante è comunque quella di darmi del folle. Una specie di scheggia impazzita e incontrollabile, non rilevabile dai radar. Dai radar ufficiali, almeno. Quelli istituzionali, insindacabili, che intercettano i segnali emessi nei bar, in ufficio, per strada, al supermercato, nei talk-show, sul pianerottolo, in piazza… I radar universali di quest’epoca contraddittoria e per molti aspetti divertentissima, impietosamente stilizzata nel micidiale tetraedro ormai destinato (almeno sulla carta) a sigillare ogni esperienza umana:

Tetraedro1

Il radar non rileva tutti quelli che osano mettere in discussione la cieca osservanza del dogma espresso da quel tetraedro, coloro che vi ruotano all’esterno. Molto all’esterno. Coloro cioè che Orwell definiva – in una delle sue più geniali e riuscite espressioni – “non-persone”. Indegne persino di considerazione.

Poiché però siamo sempre di più a riconoscere l’incombente presenza di quel tetraedro, sarà utile soffermarsi un attimo anche sulla sua proiezione intangibile: la sua estensione sistemica, che ne descrive cioè gli impatti sul nostro modo di vita.

Tetraedro2E nonostante tutto ciò, ti capita ancora di incontrarli, quelli che non capiscono. O che, peggio, fingono di non capire. Gli orgogliosi abitanti di quella piramide rossa, barcollanti ma supponenti passeggeri di quest’avventura terrena, saldamente aggrappati all’evanescente repertorio delle loro presunte certezze. Lo leggi nei loro sguardi. E, soprattutto, lo capisci dalle loro frasi. Sempre uguali. Magari diverse nel lessico, ma identiche nel modo in cui fendono a vuoto l’aria davanti alle loro bocche. Teneramente commoventi, nelle loro febbrili e cicliche litanie:

  • Riesco perfettamente a conciliare lavoro e tempo libero, è solo questione di sapersi organizzare al meglio.
  • Per quello che mi chiedono, vengo pagat@ anche troppo: così, riesco ad avere la mente libera per dedicarmi ai miei passatempi preferiti e mettere pure da parte due soldi.
  • Ho la fortuna di fare un lavoro che mi piace.
  • Adesso da me stanno introducendo il telelavoro, quindi sarà ancora più facile avere del tempo a disposizione.
  • Mi sono fatt@ spostare in un ufficio dove i carichi sono molto inferiori: zero carriera, è vero, ma in fondo il mio stipendio non me lo toglie nessuno!

Il denominatore comune – rigorosamemte non verbale – è sempre il medesimo: io riesco a godermi la vita. Fa quasi tenerezza. Soprattutto, se simili affermazioni vengono proferite con quella teatralità ostentata, liturgica, distante, metallica. Nei loro occhi, perfettamente leggibile, il pensiero di cosa mettere nel carrello, di lì a poco, al supermercato.

Che vuoi farci? Vuoi ribattere? Vuoi dimostrare tesi che già conoscono alla perfezione, ma che si ostinano a negare? Li assecondi. E, mentre lo fai, ti rendi conto che la tua indulgenza è soltanto l’ennesimo cesto di arance che gli allunghi fra le sbarre…

Cubicle

Lo scarto dimensionale che avverti è più che valoriale: è quasi… cronologico. Non sai se ti trovi molto più avanti di loro o molto più indietro. Poi ti ricordi della circolarità del tempo. E allora non fa più alcuna differenza. Sai solo che ormai navighiamo su due diversi livelli della spirale, quasi fossero due diverse dimensioni dello spirito: quella della consapevolezza e quella della finzione.

Ognuno scelga la sua dimensione, quella che lo fa stare meglio nel microscopico punto dello spazio e del tempo che delimita la sua vita. Perché non può esistere una dimensione ottimale per chiunque. Perché le sbarre esistono per tutti, sempre e comunque. Perché all’esterno di quei due tetraedri ve ne sono comunque altri. E altri. E altri ancora. Perché emanciparsi da uno stipendio fisso implica l’ebbrezza di doversi continuamente inventare qualcosa di nuovo, di tenere costantemente in esercizio testa e braccia, per raggiungere sempre nuove ed inesplorate forme di efficienza e, soprattutto, di sufficienza.

Questo è inebriante, ma va detto: non è alla portata di tutti. Occorre preparazione ed esercizio: lo tenga sempre bene a mente chi si immagina che qui fuori sia tutto più facile. Perché qui, all’esterno di quei due tetraedri, la vita fluisce golosa ma eternamente irregolare, affascinante ma costellata di incognite. Qui fuori – attenti – non s’indossano più maschere. Le reciproche nudità, qui, diventano un terreno inaspettatamente fecondo, fonte di confronto e di conforto. Qui fuori nessuno ha la pretesa di stabilire quale sia la dimensione migliore per tutti. Né, tanto meno, la convinzione che debba per forza… esistere, quella dimensione. Qui fuori la finzione non è ammessa.

8 risposte a “Finzioni

  1. Sono d’accordo con te, tra le due categorie di persone, le “meno peggio” sono quelle che non capiscono.
    Quelli che fingono di non capire lo fanno principalmente perché non riescono ad ammettere a loro stessi (e di conseguenza agli altri) i propri errori.
    Anche quest’anno il carnevale è terminato, ma come ogni giorno dell’anno c’è chi continuerà ad indossare una maschera senza mai togliersela, probabilmente fino alla fine dei loro giorni.

  2. Ti dirò che io, invece, preferisco chi finge di non capire, a chi proprio non capisce: questi ultimi non ce la faranno mai (salvo sempre possibili, personali miracoli) e dunque è fatica sprecata; con i primi c’è speranza che mettano in moto almeno l’intelligenza, se non il cuore.

    Ma è chiaro che – come tu hai scritto – ognuno sceglie la sua dimensione e quindi dovrebbe avere il pudore di non cercare scuse, quando si rende conto di essere dalla parte sbagliata della vita. Come cantava il grande Sergio Endrigo in una delle cose più belle da lui scritte “Fa chi vuole fare e chi vuole andare, va”.

  3. Ciao! Ho lavorato quasi 10 anni come agronomo precario e “ho avuto la fortuna di fare un lavoro che mi piaceva”! E che ad oggi mi manca. In termini qualitativi, non certo quantitativi o di qualità della vita (pendolare fuori casa per 12 ore al giorno). La prospettiva è cambiata quando è arrivata la mia prima figlia. Ho cominciato a sentirmi in un ingranaggio che mi schiacciava. E ho chiesto un part-time. Stessa mole di lavoro nel 60% del tempo.
    Quando è arrivato il mio secondo figlio il caso ha voluto che fossi in scadenza contratto e che avessero deciso una serie di tagli. Rimasta a casa. Non rimpiango nulla. E anzi, mi sono “resa conto” di quanto mi sono persa con la prima. In realtà ne ero ben consapevole, ma scattano una serie di meccanismi di difesa che ti fanno soprassedere alle cose importanti. Altrimenti scoppi. Ora sono libera professionista. Ho deciso di accontentarmi di 6-7.000 euro l’anno. Se ho qualche raro impegno di lavoro lo fisso in tarda mattinata in modo da poter portare mia figlia all’asilo e tornare per andarla a prendere. Mi sto organizzando la vita in modo diverso. Ma sono ben lontana da quello che dici tu. Mio marito ha anche lui un lavoro precario da 1.000€ al mese. Pendolare 12 ore fuori casa. E non ne può più. Ma anche lui sta riflettendo su altro. Quello che spaventa di più è il salto verso l’ignoto. Forse una volta fatto…

    • Ciao, grazie del tuo prezioso contributo. Tipico che, quando ti danno il part-time, non ti diano anche il… part-mansionario! 😉 Così, a loro costi meno e rendi uguale. Bello poi che, quando comunque gli porti a casa il risultato, ti senti pure dire che allora prima avevi dei margini di efficienza… (per non dire che ti tiravi le dita).
      Bene che ti hanno licenziato, una bella fortuna. E bene che ti sei reinventata. Benissimo che dichiari che 7’000 euro all’anno sono più che sufficienti. E con due figli.
      Io ho una figlia piccola, sto facendo tante piccole cose, prima fra tutte il papà (alla mattina ci penso io a mia figlia, perché mia moglie ha la sua attività). Al pomeriggio, alla sera (e spesso di notte), quando ho più tempo, scrivo e supporto progetti, miei e altrui. In una parola… creo. Anzi: creo liberamente. E ai miei 7’000 ci sto arrivando. Il mio precedente lavoro mi ha educato a valutare i trend, mai i dati assoluti.

      Quello che faccio una fatica IMMANE a far capire (e che mi procura tante incomprensioni e ogni tanto anche qualche insulto) è che… esporsi al cambiamento è un primo, fondamentale passo per… far sì che esso si manifesti! E’ come attivare energie e risorse interiori che hai tenuto latenti per anni, e magicamente trovi persone e idee che si sintonizzano su quella lunghezza d’onda. E – magia! – le cose succedono!
      Ma per chi non lo ha mai sperimentato, sembrano frasi fatte da Baci Perugina. Peccato per loro: non sanno cosa si perdono.
      Grazie ancora e ciao. A proposito, come ti chiami?

  4. Vorrei capire una cosa (e premetto che, se il tono risulterà polemico, è perché sono arrabbiata con me stessa). Tu dici che chi è nel sistema vive di finzione ed è in sostanza un poveretto. Ma dici anche che uscire non è per tutti, ciò significa che i più non possono e devono accettare il massimo che possono avere, che a te sembra triste ma non puoi farne loro una colpa. Potresti dare un consiglio pratico a chi vuole cambiare? Io mi sento come chi non può avere di più, perché lì fuori non saprebbe di cosa campare.

    • Come dico (e scrivo) da anni, non esistono consigli pratici standard e applicabili trasversalmente a chiunque: è una questione ovviamente troppo delicata e personale per essere generalizzata. Ma è invece purtroppo generalizzabile una certa disabitudine (indotta dai modelli che quotidianamente ci distraggono) a immaginarsi diversamente da come si è. Non dico che questo sia il tuo caso, eh. Dico però, con le parole di Mujica, che i veri “poveretti” sono quelli che per vivere hanno bisogno di tanto. E, non riuscendo ad ammetterlo a loro stessi, spesso indossano le maschere che dicevo nel pezzo.

      L’unico suggerimento che mi sento di dare (non espressamente a te, ma a chiunque avverta “quel” richiamo) è quello di frequentare personalmente chi si è già messo in moto. Leggerlo. Ascoltarlo. Percepirlo. Entrandone in sintonia con i sogni, le ansie, i metodi, le motivazioni…
      Ciao

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