Zoom

Ore 12. Ieri. Quartiere Trieste.
Parcheggio a Via Nemorense. Gratto il mio biglietto per la sosta. Con calma. Tanto ho ancora un po’ di tempo prima del mio appuntamento.
I finestrini sono abbassati. Non fa freddo a Roma.
D’improvviso una voce. Di donna. Grande. Bionda Bella Alta Ben nata Ben maritata Ben vissuta. Senza virgole. Di quell’eleganza sicura, elastica, contenitiva. Che può includere il suo contrario. Persino la volgarità cambierebbe nome in quella struttura. Si chiamerebbe carattere. Persino l’indifferenza. La si chiamerebbe classe. Persino la superbia. La si chiamerebbe sicurezza di sé.

Lei parla a voce alta. Dal suo palcoscenico della sua uscita-garage. Scende addirittura dalla sua distanza Classe A sbattendo lo sportello, si abbassa al marciapiede, dal suo pubblico improvvisato. Che plaude silenzioso, che assente nella pelle, nella luce degli occhi che hanno ragione.

Un uomo di età, con i pantaloni non suoi, in silenzio le ha chiesto qualcosa. E’ da parte, di lato, non lo avevo visto, si è come evidenziato di colpo come un personaggio in cerca di ruolo che avesse avuto il coraggio improvviso di lasciare le quinte.
Ecco. Ora collego meglio. La voce ha un senso. Parla con lui. Parla con noi. Parla con se stessa. Parla con Dio. Con la società. Con la Vita. Con il Senso Comune.

Sono nella mia poltrona di platea. Non stacco gli occhi dalla scena.

Non è possibile, dice la voce. L’ira, la stanchezza, l’impazienza di chi dice Basta. Che società di merda. Senza punto esclamativo. Non è una società degna di questo nome. Se si permette di farli entrare, questi qua. Né la voce alta, né una parola volgare può scalfire quell’aura di certezza, di rispettabilità, di educazione. Non devono farli entrare, se ne devono stare a casa loro. La voce continua ma con altre parole. Non cambia il senso delle parole lasciate a rotolare sull’asfalto. Qualcuna si perde in mezzo alla strada investita dalle macchine che passano.

La donna si muove. Da un lato all’altro della sua auto, all’entrata garage della sua casa elegante. E’ lei la protagonista. Non guarda il suo pubblico. Ma spia con la coda dell’occhio il consenso che sa già di avere. Che facile, la vita, certe volte niente punto esclamativo.
L’uomo dai pantaloni lunghi è più vecchio della sua età. Si allontana di qualche metro. Lentamente come a lasciare la scena. Si siede sul marciapiede come in attesa. La donna lo insegue con i suoi improperi sapendo bene che non capirà le sue ragioni né la sua lingua. L’uomo la guarda da terra. Non capisce cosa voglia fare. Lei è vicina, sovrastante, enorme, china solo le palpebre. Nient’altro.

Non mi aspettavo un tale colpo di scena. Mai una cosa di questa intrinseca violenza, mai un colpo così basso alla dignità di un altro essere umano. Poche volte ho sentito così tanto il fastidio di un gesto, così forte il desiderio di cancellarlo, di azionare un rewind di difesa.

La donna estrae un biglietto da 20 euro e glielo lancia contro. Va’, vatti a comprare qualcosa da mangiare. Va’. La sua mano è ancora tesa e l’uomo la cattura fulmineo, inaspettato. Afferra quel polso e si alza in ginocchio a baciarlo. Grato. Con gli occhi liquidi, la bocca profonda e nera. Di pianto senza lacrime, di maschera da teatro antico. Non una parola.
Per un istante la voce è quasi in ostaggio della presa dell’uomo. Lei non tace ancora. Solo parla più piano, più lenta. Quasi dentro di sé. Si ferma. Forse ha sentito qualcosa. L’uomo la lascia andare. Lei se ne va. A testa bassa. Si allontana. Sembra sconfitta. Forse dal peso insostenibile di quel contatto. Con se stessa.

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