E’ facile criticare. Viviamo nella società in cui la critica è stata eletta a modello relazionale di riferimento. Alcuni programmi televisivi, i cosiddetti talent-show, si fondano sul principio della titolarità della critica, concessa a un ristretto nucleo di valutatori, a beneficio (?) di giovani e meno giovani che esprimono davanti ai loro occhi i rispettivi talenti. La critica assume inoltre la forma di un giudizio, in ogni blog che si rispetti (non in questo, che infatti… non necessariamente va rispettato! ;-)), quando si chiede al lettore di esprimere una valutazione in merito ad un post, ad un commento, un video o ad un intervento in senso lato. Non dimentichiamoci poi dei giudizi espressi dalle Agenzie di… rating, appunto: dalle loro triple A, doppie B e dai “più” e dai “meno” che vi piazzano accanto, dipendono le sorti di intere famiglie. Una critica… pesante.
Per finire, pensiamo a noi stessi ieri sera: non stavamo in fondo criticando, mentre commentavamo il comportamento così frivolo di nostra cugina? Per non parlare del nome assurdo che hanno voluto dare i nostri amici a loro figlio! E che dire della reazione sopra le righe del tuo collega, solo per una mail troppo solerte!
Criticare è dunque diventato un elemento quasi inevitabile della nostra vita quotidiana. Astenersi dal farlo ci condurrebbe dritti dritti ad uno status di “alienazione”, di “refrattarietà”, quando non addirittura ad accuse di “snobismo” o persino di “misantropia”.
“Credo che non è giusto giudicare la vita degli altri, perché comunque non puoi sapere proprio un cazzo della vita degli altri.”
Basterebbe l’affermazione conclusiva del monologo di Stefano Accorsi al microfono di Radiofreccia, per comprendere la nobiltà del silenzio.
Occorre cambiare piano, quindi. Salire dal particolare all’universale. La critica che sfugge al pettegolezzo mediatico (o al rating economico) e che si fonda invece sul costume – inteso non come abitudine comportamentale di pochi individui, ma come stile di vita globale – diventa così sorgente primaria di confronto e di stimolo per il miglioramento collettivo. Criticare resta però soltanto uno sterile esercizio dialettico, se non è corredato da un altrettanto cospicuo dosaggio di propositività.
Per tutti questi motivi, post come il precedente – che partono da una radicale condanna dell’intero sistema di valori odierno (sia su un piano economico che sociale) – perdono ogni senso, se non vengono integrati con un adeguato set di proposte concrete. Per l’individuo. Per la società. Per l’economia. In una parola, per la politica. Questo post, che ne rappresenta la naturale prosecuzione, intende quindi stabilire quali siano le alternative possibili oggi, quando un intero palinsesto di consuetudini, radicate in noi da decenni, vacilla sotto l’incombente minaccia della tempesta socio-economica che abbiamo alle porte.
Per individuare e comprendere queste alternative, occorre fare un minimo di chiarezza preliminare su alcuni termini e concetti che si riveleranno fondamentali, ai quali dedico la parte restante di questo post (mi scuso con chi ha già dimestichezza con le definizioni che seguono, ma il blog vuole essere uno strumento di divulgazione culturale anche nei confronti di chi, queste conoscenze, non le possiede ancora).
Decrescita. Corrente di pensiero politico, economico e sociale favorevole alla riduzione controllata, selettiva e volontaria della produzione economica e dei consumi, con l’obiettivo di stabilire una nuova relazione di equilibrio ecologico fra l’uomo e la natura, nonché di equità fra gli esseri umani stessi (fonte: Wikipedia). La Decrescita rappresenta il centro di una galassia molto ampia di idee e di soluzioni, che negli ultimi anni sta progressivamente attirando l’interesse di un numero sempre maggiore di “disertori” dal pensiero economico dominante. Serge Latouche ne è attualmente il principale esponente europeo.
Transizione. Partendo dai due presupposti dell’imminente esaurimento delle fonti energetiche fossili (picco del petrolio) e degli effetti planetari del cambiamento climatico, il movimento della “Transizione” rappresenta di fatto una declinazione pratica dei principi della Decrescita, concentrandosi sulla fase di passaggio tra due momenti dell’evoluzione umana. Partite nel 2002 in Inghilterra, a Totnes, grazie ad una felice intuizione del suo fondatore Rob Hopkins, le Transition-Towns prevedono un cambiamento radicale degli stili di vita su base comunitaria, incoraggiando l’adozione di fonti energetiche alternative, la riduzione dei consumi non necessari e la vocazione all’autoproduzione dei beni di primaria necessità.
Downshifting. Con questo termine, trasversale ai due precedenti e che significa letteralmente “scalare marcia”, si intende qualificare l’atteggiamento di progressivo allontanamento dagli stili di vita attualmente dominanti e irrimediabilmente subordinati al micidiale circolo vizioso “Lavoro -> Produco -> Consumo“, dal quale il modello capitalistico non consente una fuoriuscita facile e indolore. Il “downshifter” è dunque colui che intenzionalmente “allenta” (o, nei casi più estremi, frantuma) almeno uno degli anelli del trittico, determinando in tal modo anche l’allentamento degli altri due anelli.
L’effetto diretto di ciascuno di questi cambiamenti comportamentali – si intuisce – è il totale ridimensionamento del ruolo del denaro e, in senso lato, del concetto di accumulo. Sulla rovina che per il mondo occidentale ha rappresentato il dogma dell’accumulo (di beni, di denaro, di fama…) rimando al testo – che non esito a definire epifanico – con cui ho voluto inaugurare la rubrica “Proposte di lettura”, qui a fianco. “Lettera ai contadini sulla povertà a la pace”, scritto in Francia nel 1938 alla vigilia di innovazioni normative destinate a rivoluzionare la vita nei campi, appare come una diagnosi modernissima e profetica su quanto occorra essenzialmente, alle donne e agli uomini, per vivere decorosamente e in armonia col prossimo e con la natura. Non credo esista un testo più attuale, gradevole e al tempo stesso ricco di insegnamenti, per abbracciare lo spirito del blog. Vi lascio con questa riflessione di Mauro Corona, grazie alla quale ho conosciuto quel libro: