Proprio ieri, l’ennapapà più famoso d’Italia (Graziano Delrio ha infatti al suo attivo ben nove figli, il che determina ipso facto una straordinarietà sociale che, oggettivamente, non può che testimoniare una condizione di indubbio privilegio) in un’intervista al Sole24Ore ha inanellato una serie di dichiarazioni a dir poco discutibili.
Vediamone un paio.
(1) “Un dirigente medico italiano non guadagna più di un suo collega inglese.”
Tanto per rompere il ghiaccio, questa roboante dichiarazione contraddice le evidenze dello studio dell’OECD di qualche mese fa, di cui LLHT si era infatti già prontamente occupato nel cliccatissimo “Manifesto per l’Equità”, dal quale emerge con schiacciante evidenza come le retribuzioni dei manager pubblici italiani siano mediamente circa il triplo di quelle dei loro omologhi europei:
Poiché assimilare i manager pubblici alla sottocategoria dei dirigenti sanitari potrebbe suonare come una forzatura (ma non la è), faccio quindi appello al recentissimo studio di lavoce.info che – per una incredibile e fortunata coincidenza – raffronta proprio il gap retributivo tra le alte cariche della Sanità in Italia e in Gran Bretagna. Lascio a voi le considerazioni:
(2) “La retribuzione sarà fatta anche da un premio che dipenderà dall’andamento del Pil.”
Questo tema, che ho volutamente lasciato per ultimo, riveste un’importanza fondamentale per almeno due motivi:
2.1) Essendomi personalmente occupato di questi temi per diversi anni, posso garantire che – almeno da un punto di vista squisitamente tecnico – un sistema incentivante di questo tipo è prevalentemente fumo negli occhi. In questo tipo di meccanismi, che vengono appunto definiti contributori, il beneficiario dovrebbe infatti poter avere una qualche possibilità di influenzare, direttamente o indirettamente, l’andamento della grandezza-obiettivo: ma in questo caso, come potrebbe un primario di cardiologia, per esempio, influire sulla produzione industriale della FIAT?
(A meno che, ragionando maliziosamente, il vero obiettivo non sia quello di indicizzare la quota di retribuzione variabile all’andamento del PIL, ben sapendo a quale tiepida evoluzione questo sarà soggetto nei prossimi anni…)
2.2) Il secondo aspetto è ancora più importante. La scelta del PIL come presunta variabile-chiave dello sviluppo rivela, se mai ce ne fosse ancora bisogno, quali siano le scale di priorità per questi amministratori locali prestati al governo della Patria. Perseverare nell’utilizzo del PIL come metrica principale dello sviluppo è un mastodontico errore, il cui conto (salatissimo) ci verrà presentato dall’Ecosistema, prima ancora che dalla Storia!
Il PIL, infatti, misura la crescita a qualunque costo: questa espressione, che potrebbe suonare come uno slogan, non lo è. Misurare la crescita con il PIL significa infatti misurare l’aumento di produzione a prescindere dai suoi costi indiretti (prevalentemente in termini ambientali e sociali) che questo comporta. Il PIL è infatti una grandezza di flusso che non considera la dinamica degli stock sottostanti, ignorando cioè il depauperamento del patrimonio di risorse utilizzate, sia fisiche che naturali. L’aumento della crescita è ormai esclusivamente garantito dall’aumento della produttività che, come sappiamo, non crea ma distrugge posti di lavoro. Inoltre, la crescita della produzione e dello scambio di beni e servizi finali (ciò che il PIL misura) è insensibile all’andamento – inevitabilmente parallelo – delle ripercussioni sugli equilibri ambientali.
In quanto ultima e fragile espressione di una concezione dell’economia ormai sorpassata e interamente da rivedere, i casi sono due: o Delrio non lo sa, oppure – se lo sa – non gliene importa nulla. Ma da anni, e in tutto il mondo, stanno affermandosi misure alternative del benessere degli Stati che sono fondate – come minimo – sulla correzione da apportare al PIL per tenere conto dei suoi costi indiretti o, meglio ancora, sull’integrazione di altre determinanti del benessere sociale.
Facendo mente locale sull’appendice dell’ultimo e completissimo libro di Mauro Gallegati (“Oltre la siepe”), penso per esempio al PIL-green che, utilizzato (almeno sulla carta) dalla stessa Cina, considera gli impatti ambientali dello sviluppo economico. Oppure penso a metriche come l’Indice di Sviluppo Umano (utilizzato dall’ONU), che corregge il PIL con indicatori socio-sanitari come la speranza di vita e l’alfabetizzazione. Oppure al Better Life Index (misurato dall’OCSE), che integra la misura della crescita con parametri legati alla qualità della vita. Oppure all’indice di benessere economico sostenibile (ISEW), che contempla anche la distribuzione del reddito, l’inquinamento e il consumo di risorse naturali. O alla Felicità Interna Lorda, indicatore certo più romantico, ma comunque efficacemente usato in Buthan per valutare la crescita sostenibile, anche in base alla promozione di valori culturali ed umani. Oppure, per finire, anche all’italianissimo Benessere Equo e Sostenibile (BES), indicatore poliedrico, modulare e quindi – in conformità purtroppo alla più triste inconcludenza italica – inutilizzabile come misura unica e sintetica dello sviluppo socioeconomico.
