La proposta di lettura di LLHT per il mese di Ottobre è stata “Il salto” di Lynda Gratton, docente di Gestione d’Impresa alla London Business School, considerata dall’Economist una delle poche menti capaci di predire il futuro del lavoro e acclamata dal Times come una dei venti migliori esperti di economia contemporanea. A un certo punto, parlando di come attrezzarsi per far fronte con successo alle sfide del “lato oscuro del futuro”, l’affermata economista scrive:
Come vedremo, riorganizzando i fattori di cambiamento in storie più positive, nel futuro ci saranno opportunità incredibili per diventare non un lavoratore solitario e in perenne competizione, ma piuttosto lo snodo di un network innovativo. A questo fine, dovresti impegnarti attivamente a costruire tre tipi di reti: un gruppo di persone a cui rivolgerti e con le quali hai sviluppato una relazione reciproca di lungo periodo; il Gruppo delle grandi idee, un gruppo ampio e diversificato di network, molti dei quali virtuali, dove attingere numerosi contatti; infine, una comunità rigenerante, ovvero un gruppo di persone fisiche con cui incontrarti frequentemente per rilassarti, condividere un pasto e scambiare qualche battuta.
Interessantissimo.
Ieri pomeriggio, dovendo prendere una punta di formaggio, mia moglie ed io ci siamo incamminati verso il caseificio, che si trova a un paio di chilometri dal nostro paese, in Appennino. A circa metà del tragitto, ci siamo fermati dall’Alpino, un nostro vicino di casa di quasi settant’anni che, con la moglie e con il fratello, vive in una grande casa lungo la strada: avevo bisogno di chiedergli in prestito un carretto, ma soprattutto dovevo comprargli un qualche quintale di legna, non avendo io quest’anno potuto farmela da solo, a causa di un malanno che mi ha tenuto a letto per oltre un mese. L’Alpino non c’era – era nella stalla a mungere – ma ci siamo fermati a chiacchierare con sua moglie e suo fratello. In casa, c’erano non meno di 25 gradi: la grande cucina economica al centro della stanza riscaldava l’aria, le persone e l’atmosfera. Loro non hanno alcun impianto di riscaldamento: nelle stanze da letto, un’altra stufa mantiene per tutto l’inverno una temperatura analoga. La casa dell’Alpino è circondata da boschi. Oltre allo stallone con le mucche, hanno un bassoservizio dove tengono conigli e galline, comunicante con un largo spiazzo recintato, in cui – mi spiegava – lasciano crescere dei particolari arbusti selvatici infestanti perché i falchi, in volo, li confondano con le galline, ostacolandone la cattura. Poi c’è l’orto, ovviamente ricchissimo. Poi il capannone con gli attrezzi, dove c’è anche il vecchio Lamborghini del ’67… Quante volte, insieme alla gentilezza dell’Alpino, è risultato indispensabile anche a noi, per i nostri lavori di ristrutturazione! La moglie dell’Alpino ci ha offerto della ricotta, appena fatta. Le abbiamo chiesto se, che lei sapesse, allo spaccio del caseificio vendessero anche della salsiccia, dato che neanche noi ne avevamo mai comprata. “Non ne ho idea,” ha risposto con un sorriso, “io ci vado solo qualche volta a comprare un etto di burro; per il resto, abbiamo già qui tutto quello che ci serve…”
Tornando a casa dal caseificio, ripensavo allo “snodo di un network innovativo” illustrato dalla docente della Business School of London. E riflettevo sul concetto di resilienza, tanto di moda al giorno d’oggi, sia negli ambienti “green” che nell’ambito dell’organizzazione aziendale. Pensavo anche, con una punta di amara ironia, quanto gliene importasse, all’Alpino, delle oscillazioni dello spread Btp-Bund…!
La stimata economista traccia invece una “rotta di salvezza” che muove dall’attuale stato delle cose, guardandosi però bene dal metterlo anche solo minimamente in discussione. La condizione di partenza – quella cioè in cui ci troviamo oggi – è avvolta quasi da un’aura di inviolabile sacralità: dal modello occidentale tutto parte e tutto discende, come per diritto divino. Lei si adopera così nel fornire, da un pulpito assolutamente autorevole, le soluzioni per affrontare con successo l’evoluzione dell’attuale modello socio-economico, evitando però accuratamente ogni forma di critica alla cornice di riferimento.
Così facendo, avalla implicitamente la tesi della “naturalità del capitalismo”, il suo essersi reso – a partire dal 1989 – elemento “naturale”, cioè dimensione unica e ineluttabile del nostro presente e del nostro futuro.
Lynda Gratton, dicevo, non sospetta minimamente che, per disorientare i falchi dalla cattura delle galline, occorra lasciar crescere degli arbusti selvatici spontanei. Eppure, si prodiga nello spiegarci le regole per poter affrontare con successo il futuro…
Regole sicuramente efficaci, ma soltanto se inserite in un contesto di incondizionata accettazione dell’attuale status quo e del suo perpetuarsi all’infinito, ipotesi di fatto estranea al concetto stesso di resilienza, che presuppone altresì la forte discontinuità causata da shock talmente gravi (si pensi per esempio all’esaurimento dei combustibili fossili, ai cambiamenti climatici…) da mettere integralmente in discussione le nostre abitudini e i nostri destini.
Fatta questa distinzione sostanziale tra i due diversi approcci al futuro di Lynda Gratton e dell’Alpino, dei quali emerge in modo abbastanza netto il diverso grado di resilienza, appunto, passo alla sintesi delle due soluzioni, attingendo a una ricerca di R. Wilkinson e K. Pickett del 2009: “La misura dell’anima. Perché le disuguaglianze rendono le società più infelici”, della quale lo stesso Zygmunt Bauman offre un’efficace sintesi nel suo ultimo libro “Cose che abbiamo in comune”.
Le risultanze di questo lavoro s’inseriscono a pieno titolo nel filone del paradosso della felicità di Easterlin (si veda a questo proposito il mio post precedente), dimostrando scientificamente come la felicità collettiva e individuale di una popolazione siano positivamente correlate non al suo livello medio di reddito, bensì al grado di equità con cui questo è distribuito tra le fasce sociali:
Il livello medio di “ricchezza di una nazione” (quello misurato dal PIL) ha un impatto minimo su una lunga lista di mali che affliggono la società; mentre la distribuzione di tale ricchezza – ovvero, il livello di “disuguaglianza sociale” – ne influenza profondamente la diffusione e l’intensità.
[…] Nelle società più “disuguali” del pianeta, come gli Stati Uniti o la Gran Bretagna, l’incidenza delle malattie mentali è tre volte superiore rispetto ai Paesi agli ultimi posti della classifica della disuguaglianza; anche la popolazione carceraria è molto più numerosa, così come più diffusi sono il flagello dell’obesità, le gravidanze tra giovanissime e i tassi di mortalità di tutte le classi sociali, compresi gli strati più ricchi. […] Il dato che maggiormente sorprende e fa riflettere è che, mentre livelli crescenti di spesa, soprattutto quella sanitaria, hanno ripercussioni trascurabili sull’aspettativa di vita media, un livello di disuguaglianza crescente ha invece un impatto decisamente negativo su quest’ultima.
[…] In una società disuguale il timore di perdere la propria posizione sociale, di vedersi retrocessi, esclusi, privati della dignità e umiliati è molto più forte – e soprattutto più straziante e terrificante, dato che fa prevedere la caduta in un baratro. Simili paure generano una grande ansia e aprono le porte ai distrubi mentali e alla depressione – con conseguente impatto sull’aspettativa di vita. Questo è vero in particolare per le classi medie, notoriamente insicure sulla durevolezza delle proprie conquiste e della solidità dei privilegi di cui godono.
[…] Certo, si tratta solo di statistiche e correlazioni, e non rivelano molto circa i nessi causali che ne sono all’origine. […] Sfidano (e indeboliscono, si spera) il nostro consueto torpore etico e la nostra indifferenza morale; ma dimostrano anche, al di là di ogni ragionevole dubbio, che l’illusione di poter raggiungere con le nostre sole forze la felicità e una buona qualità della vita è un grossolano, fuorviante equivoco. Che la speranza di “potercela fare da soli” – ripetendo l’impresa del Barone di Münchhausen, che uscì dalla palude tirandosi per il codino della parrucca – è un abbaglio fatale, che contrasta con i nostri stessi interessi e l’attenzione verso noi stessi.
Non riusciremo a superare quel contrasto prendendo le distanze dalle disgrazie altrui. L’unico modo per vincere la nostra lotta contro i “flagelli sociali” è di condurla collettivamente.
Ho quindi l’impressione, con buona pace dei suoi tre gruppi… di continuità, che le “ricette salvifiche” illustrate da Lynda Gratton impallidiscano di fronte allo stato di necessità che presto saremo costretti ad affrontare (almeno qui in Italia). E ho invece la sensazione che esempi come quello rappresentato dalla famiglia dell’Alpino, radicalmente immersa, anzi, elemento costitutivo e sintesi perfetta dei concetti di tradizione, comunità e condivisione (quella ricotta era squisita e il carretto di cui avevo bisogno mi verrà puntualmente prestato), siano la vera e unica via d’uscita.
Ciao Andrea, sicuramente tu già lo conosci ma mi ha fatto venire in mente il film che ho trovato ieri, come al solito spulciando su you tube. Si chiama “Vivere senza soldi, film completo”. E’ bellissima la parte in cui si parla della disuguaglianza. Così bella che l’ho vista e rivista un sacco di volte. E’ un film splendido con una scena finale senza uguali. Metto il link che magari può essere utile a qualcuno che magari lo trova bello come l’ho trovato io.
PS: ma perché il formaggio non te lo fai da solo? Ci riesco io in città! Significa che possono riuscirci tutti! 🙂 Se abiti vicino a un contadino può darti anche il latte crudo che è introvabile qui! Non sai l’invidia che ho provato a sapere che c’è una signora vicino da te che fa il formaggio… Perché io procedo per tentativi e mi piacerebbe molto conoscere qualcuno che davvero lo fa. Certo non sono bravissima però il mio primo sale (o quello che è) è buono, la ricotta anche e lo stracchino pure. Ho anche prodotto la “stracchiola” per puro caso! Ho dimenticato la cagliata un po’ troppo ed è venuta fuori una cosa tra lo stracchino e la robiola! L’ho ribattezzata così. Era buonissima e non ti dico l’emozione!:-)
La mozzarella mi dà del filo da torcere e ci ho provato una decina di volte con vari procedimenti ma niente. Credo sia una questione di ph perché non mi fila. Invece il formaggio stagionato non posso farlo perché non ho un posto fresco, asciutto e buio dove metterlo a riposo (per il momento almeno).
🙂
Ciao
Marica
Bravo….!
A me son venuti in mente certi negozi che – per fortuna – stanno nascendo nelle città; e se ce ne sono già un paio in un posto come Rovigo, presumo che in altre realtà ce ne siano di più.
Somigliano molto ai “trading post” del vecchio West, dove finivi per trovarci di tutto e non è che l’unico modo di commerciare fosse la compravendita.
Guarda caso sono gestiti da realtà marginali (immigrati) o che sono a contatto con la marginalità (parrocchie); ci trovi un sacco di roba di seconda mano – ma spesso di fatto nuova – messa lì dal “benestante” stufatosi dopo aver indossato quella camicia o quella giacca due volte; e forse preoccupato di salvarsi l’anima facendo un po’ di beneficenza…
Io e Lorenza portiamo l’usato in uno di questi negozi e con trenta/quaranta Euro ci facciamo quasi il guardaroba per una stagione. Poi capita anche che il volontario che sta lì, vista la cupidigia con cui fisso cinque bicchierini da liquore posti su una mensola, quando chiedo quanto vuole mi faccia: “Se li prenda pure, con tutta la roba che ci date, faccia pure…”. Anche in città riaffiora l’idea del baratto.
Forse per te, Andrea, visto dove vivi, non c’è bisogno di attrezzare posti del genere: il vicino ti presta il trattore e poi dice: la prima volta che fai il vino (o il formaggio), tienimene un paio di damigiane (10 chili). Però l’importante è che questa idea si diffonda.
In effetti – se vogliamo vedere l’altra faccia della medaglia – il punto è la frammentazione di tutte queste iniziative: tutte isole (scogli, delle volte…) ben staccate fra loro. E non so quanto tempo resti per ricucire in una rete che non si fermi ai 10 kmq di un paese o di una frazione tutto questo.
Non so, infine, se le soluzioni in rete saranno appunto soluzioni, o diventeranno dei problemi come hai scritto: per esempio, i “social forum”, percepiti da tutti come un quasi irrinunciabile sistema di comunicazione, sono in realtà un efficentissimo sistema di spionaggio sociale. Ma non credo che sia questo il punto; la rete è più materiale di quello che sembra: e come tu dici che “se ci si scambia un’idea, poi ciascuno si ritrova con due idee”, così la differenza la farà l’autonomia di pensiero – e quindi d’azione – degli individui.
Non credo che la situazione possa essere ricucita. Credo però che una sana e capillare sensibilizzazione degli individui sia ancora in grado di far nascere qualcosa. Negli individui stessi e poi, per estensione, nelle comunità.
Tempo fa, ho letto una specie di decalogo, firmato da Cristiano Bottone (una delle figure di spicco del movimento italiano delle Transition-Towns), in cui uno dei primi – se non il primo – comandamento suggeriva di smetterla con la competizione! Smetterla, una buona volta, di gareggiare col vicino. Sempre. Ovunque. In ogni piega della nostra vita.
Sarebbe un atteggiamento di totale contrasto con l’attuale prescrizione sociale che pone il successo come obiettivo primario delle nostre vite: un dogma collettivo, palesemente amplificato dai modelli comportamentali proposti dai media, che prevede (quindi: impone) di spuntarla sempre sul prossimo. Nel lavoro, nella scuola, nello sport, nelle amicizie, persino nei sentimenti.
“Il secondo classificato è il primo degli sconfitti” è un mantra che ricorre spesso nel mondo dell’impresa. C’è qualcosa da aggiungere?
Ecco, credo anch’io che da qui si possa e si debba partire. Ciao.
Ciao Andrea, scusa se puntualizzo, ma non ho capito se mi sono spiegato male io o hai capito male tu; hai scritto, nella tua risposta: “Non credo che la situazione possa essere ricucita.”
Quando io parlavo di ricucire, parlavo di riuscire a mettere in contatto e interagire, quante più situazioni alternative possibile: non ricucire la situazione attuale, che è fuori controllo.
Con buona pace anche del Movimento 5 Stelle – col quale comunque continuo a rapportarmi – perché un cambiamento a scala nazionale è im possibile ora come ora, con gli impedimenti che ci sono attorno. Mentre invece è possibile fare ancora qualcosa a scala locale.
Con i tempi che corrono e la buriana che si avvicina, sapere che c’è un “luogo sicuro” qui, un gruppo di persone che si industriano in maniera ecosostenibile – prima di tutto nei rapporti sociali – là, può essere una fortuna non di poco conto. E farle interagire, porterebbe ancora più speranza.
Ciao Alberto. Hai fatto benissimo a puntualizzare perché – in effetti – avevo frainteso io, credendo che tu ti riferissi proprio alla possibilità di “ricucire la situazione attuale”, obiettivo che reputo ovviamente anch’io del tutto irrealizzabile, almeno su larga scala.
Quanto invece alla possibilità di salvaguardare – su scala locale – queste nicchie di ecosostenibilità, sono assolutamente convinto anch’io che questa sia l’unica strada percorribile.
Non mi stancherò mai di ripetere che la via d’uscita potrà e dovrà esclusivamente muovere da una sensibilità individuale. O da un network – inizialmente ristretto – di sensibilità individuali, le quali non necessariamente rappresenteranno un modello emulabile dal resto della collettività!
Ma, almeno in quelle oasi, le prospettive potranno essere legittimamente diverse, per chi sceglierà di aderirvi.
A presto, ciao.
“Da tredici anni ho sostituito la competizione con la cooperazione. E mi sono trovata benissimo!”
Heide Marie Schwermer
Grandissima citazione. Non l’ho ancora letto, ma a breve mi dedicherò anche a “Vivere senza soldi”. Se ti va e vuoi mandarmi una tua recensione/commento, la pubblico volentieri nella sezione “Pensare High”! Ciao
Ciao Andrea,
il suo libro non l’ho letto ma ho visto quel film di cui ti dicevo. Si trova su you tube e dura circa un’ora e mezza. Poi ho letto le sue interviste e c’è anche
una scena di lei (bellissima) che va per un giorno a pulire un negozio di frutta e verdura. Ovviamente la guardano come una marziana e lei fa delle domande ai proprietari che sono lì quasi in imbarazzo… Lei spiega perché lo fa e a un certo punto dice quella cosa che ho citato… Mi è venuta in mente quando hai parlato della cooperazione… Trovo quella donna coraggiosa e di grandissimo fascino… Ho rivisto quella scena una decina di volte!
A proposito, invece di Cristiano Bottone. Me lo sono andata a cercare e ho letto qualcosa ma non riesco a trovare gli altri 8 punti del decalogo… Ma dove sono? Il primo riguarda la competizione, il secondo l’alimentazione che, a sua volta ne comprende alttri 10. Ma gli altri 8?
Ciao
Marica
Eccola quella scena della frutteria. Dura un paio di minuti… Quella frase però mi è rimasta nella testa… Se tutti noi ci comportassimo così, sostituendo la competizione con la cooperazione… Non sarebbe un mondo meraviglioso? Qualcuno potrebbe dire che è insita nell’uomo eppure alcuni scienziati sostengono che noi siamo primati e i primati sono animali sociali e collaborativi… Siamo diventati così quindi. Non siamo nati così… A me sembra una cosa rivoluzionaria e di una portata sconvolgente…
Sono d’accordo: l’uomo è un animale geneticamente collaborativo. Sono solo le circostanze a instillargli i germi dell’avidità e dell’accumulo. Per averne una dimostrazione abbastanza scientifica, ti suggerisco un altro film-documentario del 2011 di cui forse avrai sentito parlare: “L’economia della felicità“, di Helena Norberg-Hodge, in cui – tra le altre cose – vengono analizzati i comportamenti e le abitudini delle popolazioni del Ladakh (una delle più alte regioni abitate dell’Himalaya) prima e dopo l’avvento del libero mercato. Ciao.
Sì, grazie Andrea, me lo andrò a vedere. Non lo conosco.
Ciao
L’ho appena caricato nel nuovo menu Low-Motion (oltre a “Vivere senza soldi”). Ciao.
Ah bene… ma non avevo visto che c’è la videoteca del blog! Bello!
Infatti, non potevi averla vista: l’ho appena creata! 😉
Ciao, buona visione
ragazzi, e` una vita che io vivo contento e sereno senza soldi,cosi` mio padre e cosi i miei nonni, e pure avevamo la reputazione di stare meglio degli altri, che ci guardavano con un po d`invidia.in societa` c`hammiravano per l`essere e non per l`avere. la vita e` un arte e va imparata come qualsiasi altra cosa.
Ciao Rino,
grazie di essere qui e grazie soprattutto per la tua testimonianza.
E’ per me un piacere, inoltre, vedere che c’è qualcuno che, appassionandosi a LLHT, va a rileggersi anche i vecchi articoli.
Ciao,
Andrea
(Sì, Red/ con la slash)
Quando le persone sono disorientate (attuali scenari di cambiamento) é facile indirizzarle prospettando loro quali siano gli scenari futuri più promettenti. La economista anticipatrice di tendenze può essere che abbia una marcia in più della media e che quindi le sue prestazioni siano sopra il benchmark di riferimento. Ho il timore che assomigli un po’ al discorso del mercato azionario: sono i primi che apprendono della probabile variazione del valore di un titolo azionario a realizzare le possibilità di guadagno più consistenti. All’ affacciarsi di nuove prospettive, come l’ accesso a network e ciò che ne comporta, ci può essere la calca di adesioni senza avere tutti gli stumenti per una corretta comprensione di ciò che comportano, tra cui la fatica personale che un’ individuo ci deve mettere per stare all’ interno di questi network in modo da avere costi/benefici vantaggiosi.
Da quel che mi immagino se i network prenderanno piede l’ economia ci si butterà capofitto se fiuta la possibilità di trarne dei guadagni; come spunto mi torna in mente il discorso dei finanziamenti alternativi:
http://www.yesprofit.it/weblog/2012/07/29/prestiti-alternativi-sul-web-tra-privati-e-quasi-boom/
sinceramente non ho seguito molto questo tema recentemente, ma immagino che la maggior parte delle agenzie che mettono in contatto fra loro privati per l’ erogazione di prestiti trattengano la loro fetta di guadagno da questa attività. Se i network prenderanno piede si cercherà di cavalcare il fenomeno. Il capitalismo fagogita di tutto.
Bisogna poi capire se questo scenario di adesione ai network come soluzione salvifica avrà una evoluzione più o meno continuativa, quale sarà il tasso di nascita e di disfacimento dei network (oscillazioni), la affidabilità, ecc. Penso che network differenti (ed una altra incognita sarà la corretta dimensione degli stessi per essere performanti) avranno rese piuttosto differenziate, del resto é così anche per le aziende, le associazioni, ecc.
Tu piuttosto parli di network reali (non virtuali e allargati intendo) di persone, di vicinato, di dimensione micro. Forse sottendi a una rinascita dei rapporti tipici della vita dei borghi, dei paesi come erano decenni fa, da riscoprire e riadeguare allo scenario attuale però.
Vedo che ti é caro (anche a te), fra i tanti possibili, lo scenario agreste come modello opposto ai centri abitati -ne avevamo accennato già nei commenti ad un precedente articolo- perlomeno come modello che storicamente produceva rapporti sociali antitetici a quelli scaturiti nelle grandi città.
“A pensar male si fa peccato ma quasi sempre si indovina” mi torna in mente… Vuoi che non si verificherà una speculazione anche nel prospettare la vita alternativa, al riportare la gente nelle campagne (piuttosto che nei villaggi dei pescatori o altre realtà cadute in abbandono), a indirizzare più o meno correttamente l’ agire di idividui impreparati e poco propensi ad applicarsi, a leggere che avranno bisogno di chi gli organizza eventualmente questa transizione trattenendo per sè la proria quota di consulenza!? Anche lì potrebbe nascere il business e vedremo nuove figure professionali, che non so come si chiameranno, simili negli intenti a quelle dei promotori finanziari. Cioè propaggini delle attività del capitalismo utili a giungere ad ogni potenziale fruitore di questa nuova tendenza del marketing.
Ci sarà speculazione immobiliare verso le zone meno densamente abitate dove potebbe riversarsi una quota crescente di popolazione? E per il costo di un terreno agricolo seminativo quanto rincaro? Avevo cercato tempo fa di consultare dei forum di agricoltori per farmi un po’ una idea e veniva messo in rilievo che i terreni in Italia costano in media il triplo di quelli venduti in Francia.
Le persone che già abitano zone rurali saranno, in media, davvero portate a favorire l’ instaurarsi di nuovi venuti favorendo la rinascita di relazioni comunitarie conviviali che la decrescita renderà necessarie o li attenderanno piuttosto come falchi pronti a trarne vantaggio immediato?
In ambe le tendenze, quella teorizzata da Lynda Gratton e quella da te prospettata (quest’ ultima se l’ ho intesa correttamente), bisognerà essere accorti: ci sarà sempre qualcuno in attesa di venderci qualcosa.
Per quelli che si vogliono preparare in anticipo e attivamente le prospettive le immagino meno dolorose.
In Eskimo, Francesco Guccini dice: “Bisogna saper scegliere in tempo, non arrivarci per contrarietà.”
Proprio per questo, concordo pienamente con te sulla relativa facilità con cui Lynda Gratton (e altri come lei) potrebbero avere – specialmente in questa fase di “disorientamento” – nel proporre (cioè vendere) soluzioni comportamentali innovative e capaci di migliorare le angosciose prospettive sociali.
Ma, come giustamente tu osservi, occorre ragionare su due piani diversi: uno virtuale o “di continuità” (che influenzerà quello empirico) ed uno appunto empirico , la cui maggiore sfida, secondo me, sarà proprio quella di emanciparsi da quello virtuale, determinando in tal modo una grossa e – per molti di noi probabilmente insostenibile – discontinuità col presente.
I nuovi network prospettati dall’economista sono per molti aspetti non del tutto nuovi, in quanto già presenti nella vita moderna. Assumeranno magari forme diverse, ma la loro presenza è già ampiamente documentabile – ad esempio – nell’attuale realtà imprenditoriale (che conosco assai bene), in cui questi (costosissimi) network prendono il nome di “società di consulenza”: McKinsey, BCG, Accenture sono solo i più noti fra gli “enzimi” (parassiti?) che si insediano nei tessuti organizzativi degli organismi viventi con cui vengono in contatto (aziende), assorbendone il know-how, trattenendone la parte migliore e rivendendola (profumatamente) ad altri clienti. Puoi leggere il bellissimo “Twilight manager” di Stweart per farti un’idea della loro rilevanza socio-economica. Per il sistema, la loro è una funzione regolatrice e, soprattutto, livellatrice. Una presenza, a mio parere, assolutamente inutile (in molti casi dannosa), che contribuisce però a diffondere l’informazione tra i soggetti economici, indirizzandone le scelte e – in ultima istanza – omologandoli, uniformandoli e assoggettandoli a un disegno comune.
A costo di essere accusato di complottismo, credo che un ragionamento analogo possa valere, su un gradino ancora più alto, se si pensa per esempio al ruolo di associazioni semi-segrete come la Commissione Bilderberg o la Trilaterale: non credo di esagerare, immaginando che il loro ruolo per gli Stati e per le diplomazie internazionali sia in tutto e per tutto assimilabile a quello che hanno le società di consulenza per le aziende: si rafforzano loro, a spese dei loro “ospiti”.
Quanto invece ai network “empirici” – sullo stile di quello accennato nel post – credo che la partita si giocherà effettivamente su questo terreno. Hai perfettamente ragione quando dici che, paradossalmente, essi potrebbero rapidamente diventare agevoli “terreni di conquista” per l’ormai agonizzante mostro capitalistico.
Occorre perciò stare all’erta: i movimenti che si ispirano a intenti anche nobilissimi (penso alle Transition-towns, alla Decrescita, all’Arcipelago SCEC, ai Bilanci di Giustizia, e – più in generale – a tutto il fermento culturale e all’associazionismo indirizzati alle sempre più contingenti ansie occidentali) sapranno evitare la tentazione di facili forme di guadagno, consentite dalla possibile speculazione sulle preoccupazioni che affliggono fasce sempre più ampie di popolazione?
Premetto subito che anche gli antibiotici… costano. E, per essere affidabili, devono costare. Quindi, non ci vedo nulla di male se questi organismi “benefici” guadagnano qualcosa, nella proposta e nell’offerta di un servizio comunque utile e nobilitante per l’intera collettività. (Qualcuno accusa Simone Perotti di “vendere” i suoi libri, anziché regalarli: trovo che questa accusa sia, oltre che infondata, del tutto ridicola.)
La mia personalissima opinione risiede però ancora una volta su un altro piano, diverso da quello economico: per affidarsi a certe soluzioni (che più propriamente definirei “scelte di vita”) occorre che queste scelte siano il più possibile de-intermediarizzate. Per intenderci: almeno qui, niente McKinsey! 😉
Su LLHT ho più e più volte argomentato la necessità di un approccio essenzialmente individuale a percorsi di questo tipo. Ma attenzione: ho detto individuale, non individualistico!
Come dice Bauman, non possiamo uscire dalla sabbia mobile “tirandoci per il codino della parrucca”…! Occorre piuttosto trovare, ovviamente, una liana a cui aggrapparsi: bene, quello che intendo io è che questa liana verrà necessariamente individuata soltanto a fronte di una ricerca soggettiva. Quasi intimistica. E non potrà mai essere “imposta” (o anche, semplicemente, “proposta”) per decreto o da un qualsivoglia organismo in qualche modo rappresentativo di interessi più generali. Perché, credo, l’interesse che farà scatenare la ricerca è e resterà una questione di natura individuale. Per realizzarlo, occorreranno naturalmente quelle forme di mutua assistenza e di reciprocità che potranno nascere solo dalle inclinazioni comunitarie degli individui. Ma la ricerca, per non rischiare di sbiadirne la motivazione lungo il percorso, credo debba necessariamente partire dal sé, mai dall’altro da sé.
In sintesi, e per usare uno slogan, la mia esperienza diretta mi ha portato a ritenere che si debba “partire da soli per arrivare insieme”. Partire invece insieme rischia di essere una prospettiva troppo idealistica, quindi contaminabile e – nel lungo periodo – persino deleteria.
Con questo, non voglio assolutamente screditare l’associazionismo, anzi! Vorrei solo ribadire che, specialmente in questa delicatissima fase, occorre fare molta, molta attenzione: gli sciacalli sono ovunque. Per dovere di correttezza, voglio però anche specificare che, nelle tante occasioni in cui ho avuto direttamente a che fare con persone provenienti da questi ambienti, ho sempre trovato livelli di partecipazione e di coinvolgimento assolutamente genuini, autentici e disinteressati. Volendo capovolgere lo slogan di prima, sono anche convinto che il bisogno collettivo radicalizzi e purifichi la ricerca individuale.
Come ho detto prima, quindi, occorre fare attenzione. Ma resto comunque fondamentalmente ottimista: la “voglia di comunità” farà il resto e le sorprese – ne sono certo – saranno per lo più assai gradite!
Ciao.
PS
Ne approfitto per chiedere scusa, a te e per estensione a tutti i lettori, per l’orribile sfondo delle mie repliche ai commenti: questa carta spiegazzata non l’ho scelta io! Si tratta di un’impostazione di default, eliminabile solo acquistando un upgrade di WordPress e disponendo di alcune conoscenze informatiche che non ho. Appena trovo una soluzione, naturalmente, intervengo…
Anche nella tua risposta hai toccato con precisione punti stimolanti. Il dibattito, lo scambio di commenti nel blog servono appunto anche a questo: a considerare possibilità magari non messe bene a fuoco nelle loro possibili varianti. Interessante!
Mi sono ricordato di avere visto questo filmato, girato qualche anno addietro, che credo contenga alcuni aspetti di ciò di cui discorriamo: l’ autoattivarsi, un riposizionamento della scaletta dei propri bisogni, la ricerca di un luogo e una forma di sostentamento alternativi a quelli disponibili nella città, una convivialità che va (ri)costruita. Magari non necessariamente come nel caso specifico del video che racconta una proposta di ecovillaggio. Che per la mia propensione e i miei timori é già una realtà un po’ vincolante. Propendo per l’ approccio individuale.
http://ondemand.mtv.it/serie-tv/mtv-news/s01/mtv-news-s01e30-04
Tuttavia questo video é un suggerimento. Lo considero una forma embrionale di qualcosa che é già da alcuni anni che inizia a muoversi anche in Italia. Ricorda un po’ i discorsi trattati da Simone Perotti, senza tuttavia la profondità di analisi di cui Simone é portatore! Inoltre i filmati che lui ha recentemente prodotto, e che sto guardando con attenzione, sono su un altro livello.
Come tu osservi é meglio stare all’ erta vagliando che il fenomeno del “coaching” non degeneri. Ormai alcuni lustri addietro le banche erano un luogo dove si domandava consiglio, consulenza, oggi invece la percezione (giustamente) diffusa é quella di un sito dal quale prestare massima (diffidenza) attenzione. Spero non si verifichi questo stravolgimento anche per i movimenti da te citati.
Pensa che qualcuno addirittura accusa Simone Perotti di non perdere occasione di pubblicizzare -peraltro attraverso mezzi perfettamente legali e legittimi!- i propri libri, interventi, scritti, riflessioni. Mi sembra del tutto lecita la possibilità di promuovere la propria produzione se si intende comunicarla. Al contrario sarebbe piuttosto inappropriato pensare di trasmetterla senza renderla pubblica, isolandosi come degli asceti inaccessibili. Ma ci sono persone, sicuramente livorose, a cui non sta bene neppure questo! 😉
Ciao.
Mi fa piacere che le risposte siano stimolanti, i blog servono anche e soprattutto a questo: a scambiarsi delle opinioni!
Conosci il vecchio… “adagio”, no? Se io do un Euro a te e tu dai un Euro a me, alla fine ognuno di noi avrà ancora un Euro. Ma se io do un’idea a te e tu dai un’idea a me, alla fine ognuno di noi avrà DUE idee.
Magnifico!
Solo così la decrescita assume un senso prospettico capace di migliorare la convivenza sociale.
Esatto. L’incolmabile dualismo tra “intenzione” ed “azione” si rivelerà – temo – sempre più difficoltoso. Da un lato i predicatori, dall’altro i realizzatori. Così come tra il noùmeno e il fenòmeno occorrerebbero anelli di congiunzione, tra chi “dice” e chi “fa” occorrono dei legami sinaptici.
Questo blog è nato anche per questo.
Ciao.